Gad Lerner: «Siamo tutti un po’ bastardi»

L’incontro con il giornalista di La7 sul “melting pot” è stato il più seguito della rassegna CormonsLibri
Bumbaca Gorizia 12.12.2012 Cormons Libri Gad Lerner - Fotografia di Pierluigi Bumbaca
Bumbaca Gorizia 12.12.2012 Cormons Libri Gad Lerner - Fotografia di Pierluigi Bumbaca

CORMONS. «Siamo tutti un pò bastardi, incroci di tempo, spazio e cose. Qui come in ogni luogo del mondo, anche e soprattutto in quelli dove c'è qualcuno che predica l'unicità assoluta di razza: è una balla colossale». Gad Lerner ha parlato più volte nel corso della serata di ieri a CormonsLibri del meticciato culturale, tema che riguarda i territori della sua vita raccontati nel volume “Scintille”, ma anche quelli del pubblico che lo stava ascoltando. È stato sicuramente l'evento più seguito della rassegna organizzata da CulturaGlobale. Il giornalista nato a Beirut ha raccontato il proprio vissuto parlando anche dell'osservanza piuttosto relativa dei dogmi ebraici nella sua famiglia: «Non siamo molto praticanti - ha spiegato - ed una dimostrazione l'ho data oggi a Cormons, quando ho assaggiato un ottimo prosciutto locale anche se la mia religione non me lo permetterebbe». La storia della famiglia Lerner intrecciata con la grande epopea del Novecento: questo l’argomento principale della chiacchierata con il giornalista Andrea Bellavite. «Due miei nonni erano vostri compatrioti perché appartenevano all'Impero Austroungarico, sebbene vivessero nella lontanissima Leopoli, oggi Ucraina. Di origine e religione ebrea, scamparono al massacro nazista perché da qualche anno si erano trasferiti in Palestina. Mio padre nacque ad Haifa e si unì in matrimonio con mia madre, la cui famiglia era ebrea ma di provenienza ottomana: i suoi genitori erano originari di Smirne, in Turchia. I Lerner poi vissero tra Israele, Siria e Libano, dove nacqui io: lasciai però Beirut a soli tre anni, per venire in Italia. Ci tornai dopo 50 anni e riuscii a visitare quei territori oggi al confine tra Israele e Libano che sono sotto il controllo dell'esercito italiano». Un’esistenza difficile: per decenni rimase apolide ottennendo la cittadinanza italiana solo a 30 anni.

Matteo Femia

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