Galatolo, l’uomo della mafia nei cantieri

Il boss arrestato a Mestre controllava con dei prestanome alcune ditte di coibentazione e piastrellamento
Di Stefano Bizzi

«Noi Fontana ci impegnammo a finanziare il trasferimento della Navalcoibent a La Spezia. I Galatolo puntarono invece a investire le loro ricchezze nei cantieri dell’Adriatico, in particolare a Monfalcone». Neanche i tentacoli della mafia hanno risparmiato lo stabilimento di Panzano. Dopo la camorra è arrivata anche Cosa nostra. A raccontarlo ai magistrati palermitani è stato il collaboratore di giustizia Angelo Fontana, un tempo nipote prediletto del rampollo di mafia Vito Galatolo. Appartenente alla storica famiglia dell’Acquasanta e figlio di Vincenzo Galatolo, il boss fedele a Totò Riina che venne condannato all’ergastolo per l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il 40enne palermitano in soggiorno obbligato a Mestre è stato arrestato all’alba di lunedì nel suo appartamento dagli agenti del Gico. Vito Galatolo è una delle 95 persone destinatarie di ordini di custodia cautelare nell’ambito della maxi-operazione antimafia “Apocalisse”.

L’inchiesta del Tribunale di Palermo coordinata dalla Dia e condotta dal Nucleo investigativo del Comando provinciale carabinieri, dal Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf e dalla Squadra mobile di Palermo ha portato all’azzeramento dei mandamenti di San Lorenzo-Tommaso Natale e Resuttana. Al momento il collegamento di Galatolo con la città dei cantieri è considerato dalla Procura siciliana soltanto “soggettivo”. «In quanto condannato di mafia – hanno spiegato gli inquirenti - non potrebbe avere titolarità di aziende, ma potrebbe utilizzare dei prestanome. Se poi queste aziende compiono attività legali, questa è una questione diversa». Le indagini in ogni caso proseguono e il riserbo degli investigatori è massimo. «Alla fine degli anni Novanta – aveva raccontato Fontana -, quando le indagini si erano fatte più stringenti, i Fontana e i Galatolo decisero di spostare i loro interessi lontano dalla Sicilia. Ci spartimmo i lavori di coibentazione e di piastrellamento nei cantieri del Nord».

Il Tirreno era in mano al clan dei Fontana, l’Adriatico a quella dei Galatolo. Dopo la scarcerazione nel 2012, Vito Galatolo, raggiunto dal divieto di dimora a Palermo, si trasferì con moglie e figli a Mestre. Controllava il suo business dal Veneto, ma amava a tal punto il pesce che i suoi “picciotti”, secondo i magistrati, insieme ai conti del pizzo e degli affari, a Mestre gli portavano cassette di triglie e orate. Formalmente lavorava al Tronchetto come operaio manutentore, ma continuava a gestire i suoi traffici in laguna. Si preoccupava di ripulire i soldi sporchi della famiglia dell’Acquasanta. Ogni mese gli arrivano dalla Sicilia circa 600mila euro in contanti che riciclava nel mondo delle scommesse sportive.

Il suo nome era emerso già nell’aprile 2013 in relazione ad un’altra operazione della Dia che aveva portato a sei ordinanze di arresto per infiltrazioni mafiose nei cantieri navali. Anche in quel caso l’inchiesta era partita dalle dichiarazioni di Angelo Fontana. Dalle intercettazioni era emerso che le famiglie Galatolo e Fontana agivano «in regime di monopolio gestendo le commesse di lavori particolarmente remunerativi». Per avere il controllo dei lavori e impedire alle altre aziende di partecipare alle gare d’appalto i clan ricorrevano a intimidazioni. In attesa di essere trasferito al carcere di Tolmezzo, Galatolo si trova rinchiuso a Padova in regime di massima sicurezza.

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