Giacomo tra gag e libri: «Così Aldo e Giovanni mi hanno conquistato»

I ricordi, le storie di un tempo che non c’è più, i riti e i ritmi lenti. Poi le gag fulminanti su un’Italia prigioniera di tic, mode intercambiabili, ossessioni temporanee. Giacomo Poretti, a Trieste da oggi, farà scoprire ai suoi fan le due vie che lo accompagnano in giro per l’Italia in questi mesi. Quella del nuovo spettacolo con Aldo e Giovanni, intitolato “Ammutta Muddica”, e quello del primo libro scritto per Mondadori: “Alto come un vaso di gerani”.
Sarà prima il Trio ad andare in scena, questa sera alle 21 al Politeama Rossetti, con il nuovo spettacolo. Che arriva a sette anni dal travolgente “Anplagghed”. Poi, domani alle 18 in Sala Bartoli, Giacomo Poretti racconterà come s’è scoperto scrittore, dopo anni di successi al cinema, in tivù e a teatro. Riproporrà le storie della sua infanzia e adolescenza a Villa Cortese, lo Spoon River dei personaggi incontrati, il percorso che lo ha portato verso la carriera d’attore. Tutto un mondo che ha saputo ricostruire, in equilibrio tra realtà e fantasia, nel suo malinconico e umanissimo “Alto come un vaso di gerani”. Concepito in forma di lettera al figlio, ancora piccolino.
«All’inizio pensavo di fare una specie di diario - racconta Giacomo Poretti, costretto a strappare i minuti dell’intervista all’incalzare delle riprese per i nuovi spot della Wind -, un racconto per mio figlio. Ho iniziato a scrivere cinque, sei anni fa. Poi, questo testo si è trasformato. Mi è venuta voglia di ricordare, di riflettere. Di mettere sulla carta il mio passato e le storie che lo hanno contrassegnato».
Un libro dedicato anche ai lettori...
«Mentre scrivevo mi sono scoperto a pensare a chi l’avrebbe letto. E mi è venuta la voglia di dire alcune cose sul senso della vita».
Scrivendo, ha fatto una fuga in avanti?
«Direi di sì, perché mio figlio questo libro lo potrà apprezzare, forse, quando sarà in terza media. Dovrò aspettare ancora».
Il figlio di due mamme, il cieco dalla nascita, i giocatori di bocce: tutte storie vere?
«Ho cambiato i nomi, ho falsato un po’ i tempi. Ma sono tutte storie vere che fanno parte del mio percorso. Certo, quella era una Villa Cortese che non aveva ancora una squadra di pallavolo femminile per due volte vicinissima al titolo di campione d’Italia».
L’anno scorso ha perso addirittura al tie-break...
«Si è infranto un sogno. Anzi, quello è stato proprio un incubo. Ma forse per Villa Cortese era troppo...».
Certo, la sua Villa Cortese era un altro mondo. Si divertiva di più?
«C’era più tempo per le persone, mentre adesso sembra che non ci bastino mai le giornate. Forse è la tecnologia stessa che accelera tutto. Stiamo attenti che non diventi una dittatura. Io sono un patito di computer e altri strumenti, ma non esageriamo».
I campi di bocce non ci sono più?
«Ci sono, ma anche il gioco delle bocce non è più divertimento e basta. Devi misurarti con il campionato italiano, poi con quello europeo. L’ansia è sempre in agguato. Quand’ero bambino, la gente sembrava più ingenua. Oggi, però, facciamo la figura degli isterici».
Alto come un vaso di gerani: le ha creato complessi?
«Fino all’adolescenza, mi ha fatto soffrire molto il fatto che io non crescessi mai. Poi ho imparato a prendermi in giro. A scherzare per primo sulla mia statura, anticipando gli altri. E, a un certo punto, mi sono accorto che il fatto di essere brevilineo, per non dire decisamente basso, poteva aiutarmi».
In che senso?
«Un comico può scherzare sulla sua statura. E certe battute fanno sempre ridere».
Prima dei palcoscenici c’è stata la fabbrica...
«Dopo la terza media sono andato subito a lavorare in fabbrica. Poi sono passato all’ospedale, come inserviente e come infermiere. Tutto questo tra i 14 e i 29 anni».
I suoi genitori?
«Ho dato loro un grande dolore. Volevano che studiassi, io ho scelto di lavorare in fabbrica, in ospedale. Però mi hanno sempre lasciato libero di decidere. Soffrivano, ma non mi hanno impedito di fare le mie sceelte».
Poi sono arrivati Aldo e Giovanni?
«Me ne sono andato dall’ospedale nel 1985. Dopo più di tre anni ho incontrato loro, per caso, in un locale di Milano. Dove la birra costava poco e nel prezzo era compreso uno spettacolo di cabaret. In realtà, non racconto quasi mai quanto duro è stato trovare la strada del successo».
Il vostro primo incontro?
«C’era in scena questo tipo alto che diceva le sue battute in un bolognese-emiliano. E uno più basso, che stava zitto e si guardava in giro con sguardo confuso. Poi, il piccoletto è saltato in braccio a quello altio come avesse visto la strega di Biancaneve. E quando l’altro, per proseguire il suo monologo, ha tentato di cacciarlo, lui si è messo a fare contorsioni e acrobazie. Arrampicandosi sul suo compagno di scena. Fino a quando gli ha piazzato in testa una bandierina da sandwich e ha detto: “Ho scalato il Macìu Pìciu”».
Dopo quella sera?
«Ci siamo frequentati per tre, quattro anni. Poi abbiamo pensato che potevamo lavorare insieme. All’inizio è stato difficile. Loro a Milano riscuotevano un certo successo. Io non ero nessuno. Ci siamo piaciuti perché eravamo diversi».
E la crisi di coppia, anzi, di trio?
«No, stiamo solo più attenti a non esagerare. A non sbagliare. All’inizio ci lanciavamo su ogni idea con grandissimo entusiasmo».
Cosa significa “Ammutta Muddica”?
«Una specie di scioglilingua. In siciliano significa “spingi mollichina”, ovvero “datti da fare”. Un invito molto opportuno rivolto all’Italia, a tutti noi in questo momento. Nello spettacolo prendiamo in giro, per esempio, l’ossessione di fare le maratone, dei tatuaggi. Storie di tutti i giorni».
Non può mancare Equitalia...
«Raccontiamo le disavventure tre tipi che non hanno pagato una multa. E che si ritrovano prigionieri di Equitalia.».
A proposito di maratone, Giovanni è lanciatissimo...
«La maratona di Milano, per lui, è una passeggiata ormai. Ha coinvolto anche Aldo. Io resisto, e nello spettacolo dico: “Datemi un motivo serio perché uno si metta a correre alla nostra età”».
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