Gilberto Parlotti il talento spezzato sull’isola di Man

Il 9 giugno di 40 anni fa il campione triestino morì in sella alla sua Morbidelli: era in testa alla classifica del mondiale
Di Bruno Lubis

La moto arriva a tutta velocità, entra in una nuvola bassa di pioggia e nebbia e poi non esce più dal velo di umidità. La strada era zuppa nella parte Nord dell’isola di Man. Il Tourist Trophy pagò quella tragedia con l’esclusione dal circuito mondiale del motociclismo. Ma intanto Gilberto Parlotti era morto avvolto nella nuvola.

Sono passati 40 anni da quel 9 giugno del 1972, il pilota triestino in sella alla sua Morbidelli 125 era nettamente in testa alla classifica del mondiale dopo due vittorie, un secondo e un terzo posto. Con la quinta gara, Parlotti voleva chiudere il discorso sul titolo anche perché Angel Nieto non partecipava al Tourist Trophy. Perciò il pilota non risparmiava impegno e velocità.

Giacomo Agostini, amico e compagno di tante trasferte, aveva fatto insieme a Gilberto adeguate perlustrazioni del circuito stradale – 64 chilometri di asfalto, di solito aperti al traffico normale –, che spesso presentava (e ancora oggi presenta) buche e dossi certamente pericolosi per la velocità. Secondo il pluricampione delle 350 e 500, Parlotti aveva preso la curva maledetta a velocità troppo alta. Secondo il sodale di sempre, che non era presente quella volta perché con la caviglia rotta, Gino Rinaudo, a determinare la tragedia erano stati forse il fondo stradale viscido e magari il cambio che aveva stentato a entrare. In ogni caso Gilberto Parlotti è andato a sbattere con la moto contro l’unico palo, il collo spezzato, il corpo esanime.

Paolo Parlotti allora aveva 8 anni. Vide alla tv il tg del pomeriggio, dietro lo speaker la foto che inquadrava il padre e la notizia della morte del campione triestino. Scese in strada, correndo verso l’officina di famiglia urlando: «Papà è morto». Un urlo di stupore, di incredulità, di dolore. Gli zii in officina avevano appena saputo da una telefonata della morte del fratello ed erano ancora attoniti. La nonna si era accasciata ed era rimasta a letto per un paio di settimane, muta nel dolore e augurandosi la morte.

Parlotti era stato ingaggiato ufficialmente dalla Morbidelli dopo aver dato prova della sua bravura in cento gare e solo con l’assistenza saltuaria di questa o quella scuderia. Talento e bravura nella velocità, dopo aver vinto il titolo tricolore nella Ginkana. La moglie dello sponsor Morbidelli, prima della partenza per l’isola di Man, aveva provato a far togliere gli stivaletti viola a Gilberto, che aveva riso di quella scaramanzia. Così racconta adesso Paolo, quasi a spiegare una tragedia assurda.

Sarebbe stato l’anno della consacrazione del campione, nuovi sponsor erano pronti a fargli firmare contratti più ricchi. Bisogna partire da quegli anni, i primi del dopoguerra. E Gino Rinaudo ce li affresca con sobrietà. «Sono nato un anno prima di Gilberto e dunque mi sono dedicato prima di lui alle moto. Provavamo a guidare sulla strada del Vallone di Gorizia, sulla strada della Rotonda del Boschetto fino al Cacciatore, sul Carso. Mica c’erano i circuiti per allenarci. Eravamo bravi, con le moto che ci venivano affidate all’ultimo momento, qualche mille lire di ingaggio e altrettante di premio. Ci piazzavamo sempre bene, talvolta primi, mai ultimi. Il papà di Gilberto guidava la Topolino per portarci nelle città delle gare e sul paraurti posteriore avevamo fissato gli appoggi - una specie di panca - per le moto. Fino a Modena era un viaggio lungo, mica c’erano le autostrade. Una volta ci è toccata una bella avventura appena lasciata Trieste. Prima di Monfalcone, ci ferma la Stradale. “Dove volete andate?“. Abbiamo spiegato che stavamo andando verso il circuito delle gare. I poliziotti erano evidentemente appassionati di moto, ci hanno fatto tornare indietro, invitandoci a passare per un’altra strada. Come a dire: noi non abbiamo visto nulla. Meno male».

I ricordi di Rinaudo, aperta la memoria, non si trattengono più: «A quel tempo si cominciava a correre in età adulta, non a 12 anni come adesso. Si imparava da soli, non c’erano vecchi campioni a insegnarti la tecnica e l’evoluzione dei modelli la si capiva guidando. Noi a Trieste partivamo con l’handicap: le novità veniv ano provate subito, già in fabbrica, dai piloti lombardi o emiliani. Noi usavamo le prove di qualifica anche come allenamenti. Evidentemente eravamo dotati di bravura, se no mica ti affidavano moto semiufficiali. La prima a darci le moto preparate è stata la scudera bolognese delle Due Torri. Gilberto aveva più possibilità di correre perché suo padre lo lasciava libero dal lavoro inofficina. Io ero impiegato alle Poste e sposato a 25 anni. Ho speso ferie per fare le gare e per prendermi la mia prima moto, 98cc: ho firmato un pacco di cambiali. Papà Parlotti, con l’auto a cui attaccavamo una specie di ripiano per le moto, ci portava per circuiti in Veneto, Emilia, Jugoslavia. Dal motoclub Ostuni delle prime gare, siamo passati al motoclub Trieste e non abbiamo più cambiato. Andavamo dove eravamo sicuri di racimolare premi e ingaggi. Ricordo che ho vinto nella 125 la Trento-Bondone e Gilberto è stato secondo nella 175 dietro un certo Giacomo Agostini! Ebbene, Gilberto era tornato a Trieste sulla stessa moto con la quale aveva gareggiato. Una gita davvero comoda».

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