Gli orologi furono regolati sul tempo della Jugoslavia

Lo sapevano tutti, e da mesi, che quella della Venezia Giulia, alla fine della guerra, sarebbe stata una delle grane più difficili da risolvere. Lo sapevano a Roma e a Caserta, sede del comando di Alexander, a Londra e a Washington, a Belgrado e a Mosca. Nel lungo e freddo inverno 1944-45 Trieste era una prigione, per tutti. In una città piena di sibili e di spiate vivere era un rischio mortale: lontano e difficile da contattare il Cln Alta Italia, inesistenti i poteri della Repubblica di Salò, sempre che da qualche parte contasse qualcosa, lontana l'Armata jugoslava. Gli unici poteri vicini erano gli occupanti nazisti e il IX Korpus partigiano sul Carso. Era l'eredità orrenda, per tutta la Regione Giulia, dell'otto settembre. Persero la vita, in quei mesi, Luigi Frausin e Antonio Francesco Gigante, Mario Maovaz e Paolo Reti e tanti altri, comunisti, azionisti, cattolici, socialisti. Ma ormai anche per i nazisti la vita era difficile: raggiungere Fiume o Lubiana era un rischio, e verso l'Italia il dominio dell'aviazione alleata era quasi totale. Non c'era, per nessuno, una Svizzera vicina nella quale tessere alleanze o trattative segrete.
Atteso, il crollo nazista sorprese tutti per la sua rapidità. Dov'erano gli Alleati? Lontani, a Bologna, forse a Padova, intenti a ricostruire i ponti fatti saltare dai tedeschi. E l'Armata di Tito? Non si sapeva, sembrava sparita dietro il Gorski Kotar alle spalle di Fiume. Fu quando in città cominciarono a risuonare le cannonate che la fine apparve vicina. Era la battaglia di Basovizza e Opicina, tra tedeschi e collaborazionisti sloveni, serbi e croati e l'Armata jugoslava, ricomparsa a Pivka (San Pietro del Carso) e scesa verso il mare. La mattina del 30 aprile Trieste insorse, e fu l'ultimo atto unitario delle forze della Resistenza.
Si discute ancora, se l'insurrezione avesse un senso militare, e non solo simbolico, morale. Due cose sono certe. La prima, che specie per gli Alleati tutto si giocava su un obiettivo, il Porto Nuovo, i suoi fondali naturali e le linee di comunicazione con il Nord. Ossessionati dalla logistica, gli angloamericani volevano una base sicura per rifornire le truppe di occupazione in Austria e nella Germania meridionale. I tedeschi avevano minato tutto, da Miramare a Muggia, si trattava di impedire a qualche ossesso di azionare il comando.
La seconda: il problema dell'interregno. Era ancora fresco il ricordo del '18, quando Trieste, abbandonata dalle forze asburgiche, era rimasta preda di sbandati e saccheggiatori. Occorreva garantire un minimo d'ordine.
L'interregno durò poche ore. La mattina del 1 maggio arrivarono i primi ufficiali dell'Armata jugoslava, e presero possesso della città. Il giorno dopo fu la volta dei neozelandesi, che si affrettarono a occupare il porto, il loro obiettivo dichiarato.
Il 3 maggio il potere fu assunto da un Comando città di Trieste che impose un coprifuoco strettissimo e ordinò dal 4 maggio di regolare gli orologi, per omologarli con il fuso orario jugoslavo. I triestini si trovarono ad affrontare l'esperienza di "stranieri in patria", ostaggi di autorità che non sapevano da che parte prendere le tematiche e i problemi di una città complessa, plurale, economicamente avanzata. Ben presto fu evidente che l'unico aspetto sul quale le organizzazioni jugoslave erano preparate era quello della repressione. L'ordine era quello di disarticolare le strutture dello Stato italiano e colpire la Resistenza non comunista. Erano i quaranta giorni, il prolungamento insensato della guerra. Molti sparirono perché erano negli elenchi dell'Ozna, il servizio segreto del Partito comunista. Ma molti furono vittime di vendette, delazioni, spiate locali, come era accaduto durante l'occupazione nazista. Nessuno sa i numeri esatti, tutti i nomi; elenchi attendibili non sono mai stati prodotti, malgrado i solleciti del Governo militare alleato all'Italia. Forse un'indagine approfondita sarebbe stata imbarazzante per troppi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo