Grande Guerra: com'era dura la vita per le donne italiane
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È Giovanna Procacci la protagonista della settima Lezione di storia della rassegna “Guerra 1914-18”. L’appuntamento è domenica alle 11, al teatro Verdi (diretta streaming sul sito www.ilpiccolo.it). Procacci, già insegnante di Storia contemporanea all’università di Cagliari e di Modena e Reggio Emilia, sarà presentata da Arianna Boria. L’argomento è “Società. Il fronte interno”, e molto si parlerà delle donne. Questo, in sintesi, il suo intervento.
Alla vigilia del grande conflitto che sconvolse il mondo in pochi avevano immaginato che la "bella guerra" che nell'estate del 1914 aveva portato nei vari paesi migliaia di cittadini festanti ad applaudire alla partenza dei primi battaglioni in armi sarebbe diventata una guerra lunga, tragica, con nove milioni di caduti sui campi di battaglia, e un numero imprecisato di morti civili, di invalidi, di feriti, di vedove, di orfani, di profughi.
Concepita come guerra breve o brevissima, essa mostrò presto il suo aspetto inusitato di guerra di logoramento, di guerra "totale" e di massa, che richiedeva la mobilitazione di tutte le risorse del paese, e che coinvolgeva la popolazione civile e ogni aspetto della vita quotidiana.
Tutte le popolazioni furono colpite dall'esperienza bellica, ma non nella stessa misura e nelle stesse forme. In alcuni paesi, occupati dal nemico, i civili furono soggetti a terribili sofferenze, che talora si trasformarono in stermini di massa, come avvenne per gli Armeni e i Serbi. Altri paesi furono attraversati da rivoluzioni - come la Russia - , altri conobbero la carestia e la morte per fame, come la Germania. Diversa fu la situazione di Francia e Gran Bretagna che, potendo usufruire sia di una produzione agricola interna che di importazioni alimentari dalle colonie, riuscirono ad assicurare alle popolazioni una quantità sufficiente di cibo per tutta la durata della guerra. Come è facile comprendere, la diversa situazione alimentare dette origine ad un diverso sentimento della popolazione nei confronti dei governanti: mentre nelle democrazie occidentali non si verificarono agitazioni alimentari - anche se non mancarono le lamentele per l'imposizione del tesseramento, che costringeva a lunghe file - le proteste si susseguirono senza interruzione sia in Germania che in Russia e in Austria.
Per quanto riguarda l'Italia, benché fosse alleata con le democrazie inglese e francese, condivise molti dei caratteri politici e delle condizioni sociali degli Imperi centrali e della Russia. L'Italia alla vigilia del conflitto era ancora un paese eminentemente agricolo - il 55 per cento della popolazione era addetta all'agricoltura - ma la produzione agricola era insufficiente, e l'alimentazione popolare era stata garantita soprattutto attraverso le importazioni. Una non oculata politica di approvvigionamento da parte del governo produsse fin dal periodo della neutralità una carenza di prodotti alimentari, e in particolare del pane.
Il paese fu quindi scosso già nel 1914 da agitazioni a carattere sociale che si estesero a tutte le regioni, a cui presto vennero ad affiancarsi nel Nord e nel Centro le dimostrazioni politiche contro e pro l'intervento. Mentre con l'inizio del conflitto, e in seguito all'emanazione di dure leggi di limitazione dei diritti civili, le manifestazioni apertamente politiche cessarono, proseguirono per tutta la guerra le agitazioni popolari contro la mancanza di viveri di prima necessità e contro l'aumento vertiginoso dei prezzi.
Principali protagoniste del "fronte interno", sia nei sacrifici che nell'attività produttiva, come nelle manifestazioni di protesta e in quelle di solidarietà patriottica e di assistenza, furono le donne. Rimaste nelle città a reggere le sorti della famiglia, o caricate nelle campagne del pesante lavoro agricolo, gravate dai lutti e dall'accrescersi del disagio quotidiano, furono le principali attrici delle manifestazioni contro il carovita e la guerra.
La protesta sfociò non di rado in atti violenti - attacco ai municipi, fuoco agli arredi e alle carte comunali, aggressione agli impiegati, sassi contro le case dei notabili e delle maestre (principali artefici locali della propaganda per l'intervento), e terminò di norma con arresti e multe. L'agitazione era determinata da motivi immediati - il ritardo nella consegna del sussidio mensile, la mancanza di pane nei forni dei paesi, la requisizione di prodotti agricoli e di animali da parte delle autorità militari - ma presto si trasformava in una manifestazione contro la guerra e per il ritorno a casa dei propri familiari che combattevano.
L'agitazione popolare si incrociava spesso con quella più specificatamente operaia, come avvenne nell'agosto del 1917 a Torino, dove le operaie, esasperate per la mancanza di pane, dettero vita ad una protesta che presto coinvolse la città, e che terminò nel sangue. L'industria bellica realizzò in quegli anni uno sviluppo gigantesco, grazie alle commesse statali e agli enormi vantaggi finanziari concessi dal governo; essa mirò al massimo sfruttamento della manodopera esistente, introducendo turni massacranti, spesso di 16 ore consecutive, facendo largo uso del lavoro a cottimo, e soprattutto avvantaggiandosi della rigorosissima disciplina militare vigente nelle fabbriche.
La mancanza di generi di prima necessità si fece sentire in modo acuto soprattutto in quei centri la cui popolazione era molto aumentata durante gli anni di guerra, emigrata dalle zone limitrofe o della campagna, perché il quantitativo alimentare era stato calcolato dai consorzi sulla base della popolazione residente in tempo di pace che, in alcuni casi, come a Milano, costituiva la metà di quella che abitava la città in periodo bellico. Alla mancanza di alimenti si sommava il rialzo dei prezzi, ed i sussidi erano insufficienti a coprire le necessità delle famiglie povere. A Roma, molte famiglie dei quartieri popolari non disponevano al mattino del denaro per acquistare il pane per la giornata.
Nelle campagne le donne dovettero supplire all'assenza dei componenti maschili della famiglia, sottoponendosi a lavori spesso assai gravosi. In Italia queste nuove mansioni furono svolte soprattutto nelle zone agricole del Nord e del Centro, mentre nel Sud la diversa configurazione della proprietà terriera e le consuetudini di costume impedivano alle donne di lavorare nell'agricoltura: le famiglie dovettero sopravvivere con il sussidio concesso dalla Stato.
Nelle città del Nord e del Centro le donne trovarono talora lavoro nelle fabbriche di guerra; ed una gran parte riuscì ad ottenere un lavoro a domicilio, per la confezione di indumenti militari (settore nel quale furono occupate ben 600.000 donne). Altre, infine, migrarono verso le zone di frontiera, dove vennero impiegate in pesanti lavori di sterramento o di costruzione di camminamenti. Questi impieghi, se costarono un'immensa fatica, produssero però anche una nuova coscienza del proprio ruolo civile.
A fianco alle lavoratrici cittadine e alle donne delle campagne, il "fronte interno" fu caratterizzato dal protagonismo delle donne delle classi dirigenti e del ceto medio, mosse da motivi umanitari, patriottici e dal desiderio di compiere un'opera che le rendesse degne della cittadinanza politica e del voto (che però in Italia non ottennero). Il governo delegò l'intera opera di assistenza ai comuni che, a loro volta, l'affidarono nella maggior parte dei casi alle associazioni private femminili.
Così, mentre al fronte e nelle retrovie giovani donne svolgevano una meritoria attività sotto l'egida della Croce rossa, all'interno le donne si mobilitavano per istituire centri di ristoro per famiglie povere, asili, dispensari, ambulatori. Altre organizzavano l'invio di pacchi ai soldati, istituivano collette e raccolte di abiti, davano vita a lotterie e a serate di beneficenza.
Questa molteplice attività, connessa come era al volontariato, episodica nelle grandi città ed inesistente nei centri minori e nelle campagne, produsse effetti non adeguati alle necessità. L'aumento della mortalità infantile e femminile, che si verificò negli anni di guerra, la crescita delle malattie polmonari, la forte diminuzione della natalità sono indici del grado di estrema privazione materiale che colpì le classi più povere. E le agitazioni sociali ne furono la conseguenza.
La situazione divenne più drammatica dopo il disastro di Caporetto, quando gravò sul paese il pericolo della carestia. Se gli accordi interalleati e una riorganizzazione della distribuzione alimentare evitò il collasso, lo shock determinato dalla rotta segnò gli animi, producendo una separazione culturale tra quanti accentuarono la loro propensione patriottica e il desiderio di proseguire la guerra fino alla vittoria e quanti invece - le classi più disagiate, in particolare contadine - si augurarono che la disfatta aprisse degli spiragli per la fine dell'«inutile strage», come era stata definita la guerra dal papa.
A costoro, i "disfattisti", l'opinione pubblica patriottica tese ad attribuire anche la causa della rotta (infaustamente definita da un membro autorevole del governo «sciopero militare»), e applaudì alla ondata repressiva che colpì gli avversari della guerra - i socialisti - e i cittadini, se anche solo esprimevano perplessità sulla vittoria.
Mentre le difficoltà economiche e le scelte attuate dalla classe dirigente, avevano acuito le tradizionali divisioni interne - tra Nord e Sud, tra campagna e città, tra imprenditori e lavoratori, tra ceti medi e operai - il malessere sociale si trasferiva sul piano culturale, per dar vita a un’accentuata spaccatura politica e ideologica tra i cittadini, destinata a proseguire nel dopoguerra e a determinare il tramonto della democrazia.
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