I segni nascosti di Dino Tamburini dietro alle grandi opere di Trieste
Oggi l’inaugurazione della mostra alla biblioteca Crise. Il curatore Panizon: «La sua era una sperimentazione continua
Trieste deve molto a Dino Tamburini. Fra i tanti architetti che hanno contribuito a cambiare nel corso del Novecento il volto della città, non può mancare il suo nome: per la quantità di edifici che l’hanno visto impegnato a vario titolo e soprattutto per l’ampiezza del raggio che questi ricoprono, espandendosi dal centro agli angoli più periferici. Eppure, vuoi per l’eclettismo del suo stile, vuoi proprio per la “dispersività” geografica del suo lascito artistico, è difficile avere una precisa contezza della grande portata del suo lavoro.
«Si fa una certa difficoltà a distinguere le sue opere», riflette Giovanni Panizon, curatore della mostra “Nel segno di Dino” che sarà inaugurata oggi pomeriggio alla biblioteca Stelio Crise di largo papa Giovanni XXIII, in occasione del centenario della nascita dell’architetto. Camminando fra i pannelli fotografici che compongono l’allestimento, l’impressione ne esce rafforzata: il numero di immobili marchiati dal «segno» di Dino è sterminato e ci si stupisce di riconoscerlo dietro a questo o quel palazzo. Anche per trasmettere questa idea di capillarità, la mostra non presenta un carattere scientifico e si concentra piuttosto sull’impatto visivo delle immagini, solleticando più lo sguardo che la mente.
Vediamole, allora, le opere di Tamburini. L’allestimento segue tre principali scansioni temporali, che dagli anni Cinquanta arrivano al nuovo millennio. Con il progressivo mutare del suo stile, cambia tutto intorno la città: Tamburini si adatta alle nuove esigenze del territorio, senza però mai rinunciare al suo estro architettonico. I primi progetti vedono un’impronta razionalista, frutto della collaborazione con Roberto Costa da cui nascono nel 1952 le case a torre di via Conti.
A Tamburini bastano però otto anni, assieme alla possibilità non secondaria di agire in autonomia, per imboccare una strada diversa con la chiesa di San Luigi a Chiadino, forse la sua eredità più conosciuta. Il progetto viene steso in meno di dodici mesi e le forme sinuose, riconoscibili anche da lunga distanza, diventano presto uno dei simboli del rione e della spinta innovatrice di Tamburini.
Spinta che non si esaurisce, anzi si accentua lungo gli anni Sessanta. La mostra curata dall’architetto Panizon parla in questo caso di «fase monumentale», con un riferimento specifico all’Albergo Europa e all’annessa scuola alberghiera delle Ginestre. Torna il disegno arrotondato in un impianto più complesso rispetto a San Luigi, tanto che Panizon esclama sorridendo: «Le linee diritte proprio non gli piacevano». In generale, il “segno” di Tamburini evolve dal razionalismo iniziale verso un modello quasi brutalista, del resto ben visibile nello stesso Hotel Europa. Il compimento di questa fase è nella nuova sede dell’istituto Nordio di via di Calvola (aperto solo nel 1976), che sfugge a ogni classificazione con i suoi due corpi di fabbrica collegati da archi in cemento.
Ecco che, di fronte a un panorama così vasto ed eterogeneo, si comprende forse il motivo della difficoltà di inquadrare (e quindi di divulgare) il patrimonio architettonico triestino firmato da Tamburini. Se poi a ciò si aggiungono anche i restauri, l’impresa diventa ancora più ardua. Tra i beneficiari maggiori c’è il teatro Verdi, sopraelevato di un piano con il tetto completamente ridisegnato. O ancora il Caffè Tommaseo e, negli ultimi anni di attività professionale di Tamburini, la ristrutturazione dell’Adriaco sulle Rive, completata nel 2001.
«La sua era una sperimentazione continua», tira le somme Panizon. Sperimentazione che non guardava solo all’architettura e alle sue diverse diramazioni (residenziale, commerciale, restaurativa) bensì anche al disegno a mano, come dimostrano una serie di caricature dedicate a familiari e amici. Perché in fondo Tamburini era pur sempre un componente attivo di quella «triestinità alto-borghese», per dirla con Panizon, che lui frequentava con piacere e che amava ritrarre nel tempo libero.
Nel repertorio non manca neanche il design: la mostra espone il modello di una maniglia, anche questa, come si avrà intuito, dalle curve dolci e armoniose. E vale la pena citare, in proposito, quello che potrebbe essere definito il manifesto artistico di Tamburini: «Il piacere è l’elemento più importante di qualsiasi lavoro. Il gioco aggiunge gratuità alla fantasia e nutre l’immaginazione». —
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