I sogni di Severino stroncati nell’orrore di Buchenwald

La storia del partigiano ronchese Zanet deportato nei campi di concentramento tedeschi. Ora è il tempo della memoria

di Roberto Covaz

Essere stati deportati significa aver detto la verità e non essere stati creduti. Significa aver aspirato nell’ambizione di tutti gli uomini, la libertà. Significa essere stati trattati come bestie fino ad arrivare a pesare 35 chilogrammi. Significa non aver più voluto parlare del buio dei campi di concentramento ai figli e ai nipoti quando si arrampicavano sulle ginocchia. Significa essersene andati per sempre sapendo com’era la prima parte del viaggio.

Venerdì all’Auditorium di Gorizia ci sarà una medaglia con su scritto Severino Zanet. Che era di Vermegliano, frazione di Ronchi. Che era un partigiano, un palombaro e un uomo forte, sano e felice padre di famiglia. Lo presero un giorno a casa sua, davanti alla moglie e ai due figli piccoli, atterriti dalla violenza dei Tedeschi. Lo accusarono di aver fatto saltare, con altri complici, un deposito di munizioni a Cervignano del Friuli. Era il 24 maggio del 1944. Un mercoledì. Lo schiaffarono nel carcere del Coroneo a Trieste, in mezzo a tanti altri disgraziati che l’ultimo cielo l’hanno visto dai quadri delle sbarre. Severino dimostrò che quel giorno a Cervignano lui non c’era; si trovava a Pola a fare il suo mestiere di palombaro. Era in trasferta per il cantiere di Monfalcone che quella volta già si chiamava Crda. Gli credettero ma è come se non l’avessero fatto. Invece che a casa, dalla moglie e dai figli, fu spedito nei campi di concentramento di Dora e Buchenwald. Nell’orrore. Era un partigiano - della Brigata Proletaria come tanti altri giovani bisiachi - e tanto bastò a decretare la sua condanna a morte. Elisa Zanet è una signora orgogliosa di avere avuto un nonno così. E venerdì sarà lei a ritirare la medaglia: «Forse mio nonno ha passato la sua vita nella speranza di dimenticare il tanto dolore subito; oggi tutti noi abbiamo l'obbligo di non far dimenticare trasmettendo tutto ciò che è a nostra conoscenza alle generazioni future affinchè non accada più. Questa medaglia è importante per mantenere vivo il ricordo di quanto hanno subito i deportati».

Quando gli americani lo liberarono dal lager Severino era costretto a letto dalla fatica dei lavori forzati e dalle torture subite che non gli consentivano più di camminare. Testimonia la nipote: «All'arrivo degli alleati si trascinò con tutte le sue forze alla porta e si mise ad urlare fino a quando qualcuno lo sentì correndo ad aiutarlo ed a salvarlo. Arrivò a casa due mesi dopo la fine della guerra, pesava 35 chilogrammi. Ci vollero un anno e mezzo di cure mediche e ricoveri in ospedale affinchè il nonno potesse riprendere la propria attività lavorativa come palombaro nei cantieri di Monfalcone fino al 1966 anno in cui andò in pensione».

La storia di Severino è la storia di tutti gli altri deportati che venerdì saranno ricordati a Gorizia. Speriamo gli studenti capiscano, riflettano e credano profondamente a queste storie. Così brutte da non sembrare vere.

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