I soldati pavoni erano inadatti alla guerra

Ai Musei provinciali di Borgo Castello a Gorizia la mostra delle divise degli eserciti europei nella Belle Époque

La vigilia della guerra fa moda. Con i suoi soldati-pavoni, dalle uniformi cromaticamente ardite, gli alamari e i bottoni scintillanti, i decori preziosi che testimoniano il grado del militare e accarezzano la vanità dell’uomo. La Belle Èpoque in divisa è preziosa quanto quella delle signore, adatta al passeggio domenicale con la propria dama al braccio. Sono gli eserciti colorati, raffinati e vanesi, che sfilano nel crepuscolo di un’epoca e nell’illusione di guerre cavalleresche e di breve durata, sull’orlo di un abisso dentro il quale ci saranno soltanto morti, trincee e il grigio impenetrabile del fumo e delle mimetiche. Non più soldati a tinte forti come i soldatini di legno, non più divise haute couture per scontri frontali, dove gli abbinamenti shock - color block diremmo oggi - servono per riconoscersi e per intimidirsi a vicenda, ma uomini equipaggiati per confondersi nel fango, nel fumo e nelle trincee, per non diventare bersagli dei nuovi e più precisi armamenti.

La mostra allestita ai Musei provinciali di Gorizia racconta l’ultimo sogno di eleganza e raffinatezza maschile, l’ora prima del conflitto che lascerà sul campo distese di morti. Trenta uniformi, di cui ventinove relative ai diversi eserciti europei destinati a fronteggiarsi nel conflitto mondiale e una, che chiude il percorso espositivo, della Marina statunitense. Quattro sale che rappresentano il trait d’union tra due musei permanenti, quello della Moda e quello della Grande guerra, sigillando un arco cronologico approfondito in tutti i dettagli, in ogni piega della società e del suo guardaroba: gli abiti ricchi delle signore e le uniformi altrettanto elaborate dei loro cavalieri, come al varo della Viribus Unitis o in un’ideale passeggiata domenicale sul corso di una grande città mitteleuropea, poi lo sbriciolarsi di tutto un mondo di “ornamenti scintillanti” tra altre pietre, quelle opache e fredde delle trincee. L’arte della guerra stava cambiando, ma i segnali già visibili rimandavano a scenari lontani, al conflitto anglo-boero o a quello russo-giapponese, e parevano ancora dilazionabili, esorcizzabili.

«Le uniformi in mostra - racconta la sovrintendente dei musei goriziani, Raffaella Sgubin - vengono tutte dal mercato antiquariale, fuorchè una, di proprietà del conte goriziano Ferdinando Prandi de Ulmhort, l’unica di un personaggio di cui abbiamo notizie certe. L’uniforme era di suo nonno, il conte Gino Prandi del V dragoni, che si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà all’Italia, perchè - così disse - un ufficiale e un gentiluomo lo fa una sola volta nella vita». Il conte Gino, inviato sul fronte russo, in Galizia, nel 1915 venne ricoverato a causa della nefrite, ma ottenne vari riconoscimenti per il suo comportamento valoroso di fronte al nemico. Con l’arrivo dell’Italia leale verso la casa d’Asburgo, rifiutò di aderire all’esercito italiano e per le sue idee liberali fu poi processato, condannato dal Tribunale speciale per la sicurezza dello Stato e inviato al confino in Sardegna, dove conobbe De Gasperi e Bugatto, entrambi iscritti al Partito Popolare, con cui intrattenne rapporti per anni.

Il concetto di uniforme, come cominciò a delinearsi nella seconda metà del Seicento, si basava sulla necessità dei comandanti di distinguere le proprie truppe da quelle avversarie. I militari dovevano portare abiti, contrassegni e copricapi che li rendessero immediatamente riconoscibili sul campo, senza impedirne i movimenti. Nell’età napoleonica i colori sgargianti erano indispensabili per essere visti nello spesso fumo prodotto dalle esplosioni conseguenti alla combustione della polvere da sparo e solo quando quest’inconveniente bellico venne eliminato anche la “palette” militare cominciò a scolorire.

«Il cromatismo era importante, basti pensare ai calzoni rossi della Fanteria francese o della Cavalleria austro-ungarica, al blu con gli alamari bordeaux degli Ussari ungheresi», racconta Sgubin. «In queste uniformi colpiscono molto i tagli sartoriali e la varietà dei dettagli. E le curiosità della mostra, non solo per gli appassionati, sono molte. Una per tutte: il generale dell’esercito austro-ungarico, con la giubba bianca, le piume verdi e i calzoni rossi. Questa era anche l’uniforme di gala di Francesco Giuseppe, con gli stessi colori della bandiera italiana».

Realpolitik da guardaroba è quella per le forze armate tedesche di fine secolo. La fusione di tanti antichi stati in un solo Reich, operata da Bismarck in forma di consenso e riconoscimento della superiorità territoriale e militare prussiana, era stata una sottomissione realisticamente accettata dai rispettivi principi. Ma la “prussianizzazione” forzata sarebbe stata un grave errore e avrebbe acuito, per esempio, l’insofferenza di un grande stato ex-sovrano come la Baviera. La struttura federale dell’Impero fu così saggiamente rispettata, proprio a partire dall’«esteriorità» di insegne, divise e distintivi, che ricordavano a ciascuno la propria identità regionale, nel rispetto dei colori. Una macchina bellica, dunque, decisamente patchwork: i generali, gli ufficiali e i soldati bavaresi indossavano una tunica celeste anzichè azzurro scuro come tutti gli altri, salvo i generali del Braunschweig che la portavano nera, a ricordo della tinta preferita dal loro duca al tempo delle guerre napoleoniche. I bavaresi, inoltre, enfatizzavano l’identità negli accessori: per dieci anni portarono l’elmo a cimiero in tutte le armi, rifiutando il Pickelhaube, l’elmo chiodato.

La Belle Èpoque in divisa è l’ultimo giro di ballo prima di un cambiamento epocale. Per la moda, una ricorrente fonte di ispirazione. Così alamari, bottoni e cordoni ci restano nell’armadio, dalla parte delle donne.

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