Il cibo come mezzo per conoscersi

«Chi viene da noi non vuole solo mangiare ma anche assaggiare un pezzo del nostro territorio»
Di Eleonora Cozzella

di Eleonora Cozzella

«Io credo fermamente che il cibo sia in assoluto il modo migliore per incontrare il mondo e gioirne». Con queste parole Nadia Santini ha concluso il suo discorso, conquistando la standing ovation di un pubblico composto dai più grandi chef internazionali, a Londra quando nel 2013 è stata proclamata World’s best female chef, la migliore chef donna del mondo. E anche oggi Nadia, che insieme con il figlio Giovanni guida la cucina del ristorante “Dal Pescatore” a Canneto sull’Oglio (Mantova), parla di gastronomia in termini di incontro e gioia. Non a caso ha provato molta emozione quando è andata la prima volta a Expo, che ruota proprio intorno al tema dell’alimentazione in un’immensa riunione di Paesi.

«Expo è come un grattacielo con tante finestre – spiega – ciascuna affacciata su un paese diverso di questo nostro pianeta. Ma è nostro nel senso che noi lo abitiamo in questo momento. Dobbiamo ben conservarlo per chi verrà dopo di noi». Così la chef tira subito in ballo il tema “nutrire il pianeta”, cioè tutta l’umanità, presente e futura.

A proposito di futuro, ha fiducia nei giovani sul tema ecosostenibilità?

«Le nuove generazioni mi danno grande speranza. Nei giovani vedo il senso della sacralità della terra che avevano i nostri nonni (basta considerare che le facoltà di agraria sono molto richieste) e allo stesso tempo l’interesse per scienza e tecnologia. I miei figli, ma in senso lato le nuove generazioni, sanno che le scienze della terra sono il mezzo per migliorare il futuro, che la vigna e l’orto vanno curati come un organismo vivente che cresce. Dobbiamo tornare a lavorare la terra con rispetto, senza violentarla, usando con saggezza le nuove nozioni di agronomia, chimica, meccanica, anche architettura. Poi i frutti della terra arrivano in tavola, vero motore di risveglio culturale».

In che modo la tavola contribuisce a questo risveglio?

«Tutta la riflessione che c’è intorno al cibo e alla cucina in questo periodo, è secondo me un richiamo a un nuovo Umanesimo. Seicento anni fa in Italia si arrivava a una nuova filosofia che metteva l’uomo al centro dell’universo, non le cose, non la finanza, non i soldi. Un grande evento internazionale che pone l’attenzione su prodotti, cibo, acqua, agricoltura, quindi la vita delle persone, è tra i segnali di un ritorno all’Umanesimo. E la storia ci insegna che dopo sarà la volta del Rinascimento».

In effetti si parla tanto di cucina. Anche in tv. Lei cosa pensa di questo fenomeno?

«La cucina in tv è un bello spettacolo, ma temo che il successo di numerosi programmi crei solo bolle di attenzione, destinate a scoppiare. Gli autori cercano impatti forti, ma con il tempo le persone si annoiano e cercano altri oggetti d’attenzione. È accaduto con il Grande Fratello, accadrà anche con la cucina. Io aspetto allora un reality sull’orto, che mostri i tempi di semina, le tecniche per zappare e la raccolta in diretta. Sarebbe bello insegnare il ritorno alla terra anche così».

È questo il segreto per nutrire il pianeta?

«Sì. E noi italiani, fino a ieri popolo di contadini, dovremmo saper dare l’esempio. Andare al supermercato, fare enormi carrellate di cose e poi buttarne via la metà, non ha senso. Certamente chi fa marketing ha la laurea honoris causa nell’invogliare a riempire il carrello. Servono dei suv per portare a casa la spesa! Ma come è possibile se le famiglie sono sempre più piccole? Con quattro cassette sul terrazzo possiamo avere quel po’ di insalata, pomodori e peperoni per fare una cucina sana e semplice tutti i giorni. Con due uova e un po’ di farina si riesce a fare la pasta, alimento sublime anche solo con un filo d’olio. Come ci viene di comprare quintali di tutto, se dopo ne va a male la metà? Bisogna andare a scuola di buon senso».

Se fosse lei l’insegnante cosa direbbe a un corso di buon senso?

«Partirei dall’importanza di recuperare sani rapporti con gli anziani, che hanno ancora molto da insegnare. Mi ricordo che quando sono entrata nella famiglia Santini, la nonna non era mai contenta di come facevo le cose, mi faceva ripetere all’infinito gesti semplici come tritare il prezzemolo. Ma è nel provare e riprovare che si riesce. Nel seguire l’esempio dei più grandi. Gli anziani prima erano un capitale, non un peso. La nostra famiglia in questo segue un’altra strada. Quando abbiamo deciso di dare un indirizzo di alta ospitalità al nostro ristorante, ci è stato da subito chiaro che volevamo puntare sull’incrocio di generazioni come patrimonio di energie. Da questo solo può nascere vera cultura. Se ora Alberto in sala e Giovanni in cucina hanno così successo è grazie agli esempi di nonna Bruna e sua madre prima di lei. Non bisogna mai interrompere la trasmissione di conoscenze. Altrimenti siamo persi. E si perde anche l’identità».

Identità è una parola chiave nella sua cucina.

«Io penso che ci sia un cibo dell’anima, che si chiama religione, filosofia cultura. E poi un cibo del corpo e del cuore che è cucina e amore. La cucina è stare insieme e prendere i prodotti e trasformarli nel modo più semplice possibile. Quando parlo di semplicità mi riferisco alle cucine di casa, poi ci sono le cucine dei ristorante, che sono abilitate a fare anche un’evoluzione diversa. L’importante, in entrambi i casi, è un religioso rispetto per i prodotti. In questo faccio rientrare anche la responsabilità di presentare nel piatto qualcosa che sia identificabile con la cultura locale. Perché chi viene a mangiare da noi non vuole solo mangiare, ma assaggiare un pezzo del nostro territorio».

@ele__cozzella

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