Il corso d’acqua sopravvissuto al cemento grazie alle gallerie create in epoca teresiana

IL REPORTAGE
Lo scorrimento delle acque nelle immediate periferie triestine non sempre è invisibile. Ci sono aree, immerse nel verde in cui un passato ormai remoto sopravvive, dove il corso d’acqua gode di discreta salute. Il torrente Farneto, più propriamente detto Starebrech, rappresenta con esattezza l’antidoto all’estinzione.
«Gli studenti delle scuole medie – racconta Nadia Milievich, insegnante alla Codermatz – amano profondamente poter vivere il contatto con la natura, e naturalmente, di tutto ciò fa parte anche il torrente che scorre a Sottolongera». Nadia disegna con precisione la mappa delle buone pratiche, del mantenimento degli slanci e degli spunti che la Storia è in grado di fornire.
«Due anni fa abbiamo sviluppato un progetto che si snoda esattamente lungo il corso dello Starebrech». L’iniziativa ha visto il recupero di parte della sentieristica che si “affaccia” sul patok. «Si chiama Bacarubra, e l’abbiamo inaugurato l’anno scorso, grazie anche al supporto del Comune di Trieste. Abbiamo proposto una traccia dimenticata proprio per tentare di recuperare le relazioni con la dimensione naturale di questa zona».
Nadia è nata non distante dall’alveo dello Starebrech e possiede vividi ricordi di quando le preoccupazioni non esistevano. «Un tempo c’era un sentiero che partiva da casa Bartoli e scendeva verso il patok. Oggi purtroppo la traccia è andata pressoché perduta. Si arrivava fino alla stazione di pompaggio vicina alla ferrovia; era aperta campagna e per arrivarci eri costretto a guadare il torrente».
La relazione con i flussi d’acqua a volte si interrompe, a volte invece diventa occasione per una critica disillusa della situazione contemporanea. «Oggi certi tochi del patok xe diventai un scovazon», afferma Nadia. «C’è la sensazione di abbandono, che insomma non interessi più come un tempo». «Quest’anno volevamo partecipare ad un progetto – conclude Nadia – lanciato dalla Società Adriatica di Speleologia per entrare e toccare con mano il torrente che scorre sotto terra e che nasce in prossimità dell’acquedotto teresiano, a Capofonte. Purtroppo non ce l’abbiamo fatta perché c’era troppa acqua».
I torrenti triestini infatti non si vedono quasi mai all’aperto, pochi i tratti dove immaginarsi le lavandaie o le mandrie ad abbeverarsi. Sullo Starebrech la Sap si occupa di quelle che vengono definite gallerie di captazione, gallerie artificiali realizzate nella seconda metà del Settecento, al tempo in cui a governare c’era ancora l’imperatrice Maria Teresa. Sono chiamate Stena inferiore e superiore, ma la vox populi che le accompagna vuole che vengano identificate con l’aggettivo di “francesi”. Sono perfettamente visibili a occhio nudo e leggenda consolidata tra gli abitanti della zona vuole che al loro interno crescano persino delle perle di fiume. Narrazione popolare oppure realtà, le acque delle Stene venivano utilizzate dai contadini che qui possedevano i campi. Venne anche realizzato un lavatoio dove le donne erano solite a lavare i panni di casa o quelli della borghesia cittadina.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale, all’inizio della zona chiamata Guardiella, il torrente scorreva ancora all’aperto. Quando invece ad imperare erano i romani, la vallata sembra fosse chiusa da una sorta di grande diga, che doveva appunto raccogliere l’enorme portata del torrente e dei suoi affluenti.
«La vegni, la vegni con mi che ghe fazo veder» racconta Silvana Tuma, nella vallata di via Timignano. «Noi stemo qua de sempre, i avi de mio marì iera Maizen». Silvana scavalca le ortiche che aspettano solamente di fiorire, per dirigersi verso l’alveo del torrente Timignano, un rigagnolo ormai arso e poco conosciuto. «Qua de drio i xe vignui a far anche lavori ma mi i cinghiai me passa oltre proprio pel patok» racconta Silvana mentre si dirige verso il tratto in cui il torrente s’inabissa. «La vedi qua, ’sto buso no me piasi proprio per niente, go paura che anche el can el possi svolar zo».
Franco Meula risiede qualche casa più sopra di Silvana. È stato insegnante e oggi è in pensione. «El patok? Ormai qua nissun quasi sa niente» racconta mentre raccoglie alcune zucchine bianche. L’area del Timignano è afosa e le zanzare si moltiplicano, attaccando chiunque passi per di qua. Un cartello sulla porta di una casa non distante dal torrente recita “casa nostra”.
Chissà se c’è qualche forma di vita che ancora oggi considera i torrenti come casa loro. L’esistenza di rigagnoli ormai sepolti dalla cementificazione e dal disinteresse, fa in modo che la disillusione, possa prendere il sopravvento. «Con i ragazzi avevamo anche pulito il torrente, al tempo del progetto», racconta Nadia.
Ecco. La bellezza malinconica sparisce e lascia spazio alla speranza. Chi, se non i giovani, ha gli strumenti per ridipingere di azzurro i patok di casa nostra? —
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