Il “generale dei gesuiti” «Trieste vero porto e crocevia di persone»

Ieri ha visitato per la prima volta Trieste Arturo Sosa Abascal, da ottobre 2016 preposito generale della Compagnia di Gesù, altrimenti detto “generale dei gesuiti” o “Papa nero”. Laureato in Filosofia e in Scienze politiche, padre Sosa è nato a Caracas nel 1948 da un padre per due volte ministro delle Finanze. Oltre che l’appartenenza all’ordine di Loyola e l’origine sudamericana, con il pontefice Bergoglio condivide anche lo spirito di rinnovamento interno alla Chiesa.
Di recente ha dichiarato che nella chiesa regna una «situazione speciale»: in che senso?
Sotto la guida di Francesco la Chiesa respira di nuovo un’aria post Concilio Vaticano II. Quest’ultimo ha rappresentato un momento di rinascita della speranza, soprattutto in America Latina, e non senza tensioni. Francesco come Giovanni 23esimo ha riaperto le porte e le finestre della Chiesa.
Quali sono i problemi della gente? Quale il suo linguaggio?
Impone di pensare la globalizzazione, che adesso è ancora e solo una tensione all’uniformazione. Vivere nella comunità mondiale impone di prendere coscienza delle diversità.
Quali sono le sfide che il presente pone?
Le migrazioni, l’aumento della diseguaglianza, l’indebolimento della capacità di dialogo, la crisi ecologica, la cultura digitale e l’indebolimento della politica.
Partiamo dalla politica.
È l’unico rimedio ai populismi, che sono carenze di politica. Racchiudono in sé la parola “popolo” ma nulla hanno a vedere con esso: sarebbe meglio dire “personalismi”. Dietro un linguaggio apparentemente popolare nascondono infatti interessi particolari, di individui come di Stati.
Dalla crisi tra Usa e Corea del Nord all’invasione turca della Siria, il mondo è sul piede di guerra.
La speranza dei poveri della Terra di vivere una vita umana e degna è minacciata. Sono preoccupato.
Di qui le migrazioni.
Il movimento di chi oggi fugge dalla guerra e dalla miseria è epocale e inevitabile. In questo processo s’inseriscono i trafficanti di esseri umani, la cui opera di disumanizzazione si fermerà solo se penseremo a un concetto di cittadinanza universale. L’ottica statuale non è più sufficiente per affrontare i problemi del presente: non solo quelli eminentemente politici ma anche quelli legati alla natura.
Prima lei ha nominato crisi ecologica e cultura digitale.
Che l’uomo si stia avviando verso l’autodistruzione è una possibilità, ma non l’unica. Il modello industriale ha inferto al pianeta la sua più grande ferita: l’ulteriore sviluppo tecnologico può sanarla come darle il colpo di grazia. Ho colto il riferimento all’intelligenza artificiale e all’industria 4. 0 ma a me interessano soprattutto le conseguenze culturali dell’avvento del digitale: chi è il nostro prossimo, oggi? Chi nasce con lo smartphone in mano sviluppa competenze relazionali che quelli della mia generazione mai acquisiranno. Il processo è appena iniziato e l’umanità non ne è consapevole. Ecco perché i gesuiti puntano sull’educazione.
Come?
Né io né chi oggi è giovane possiamo sapere come sarà il mondo tra trent’anni. I cambiamenti sono così grandi da essere imprevedibili e la scuola non può preparare nel senso utilitaristico del termine. Educare allora cambia senso: bisogna insegnare ad agire umanamente in un contesto non prevedibile.
Lo scenario appena descritto dà a molti laici l’impressione di vivere alla fine dei tempi.
Da uomo di Chiesa ho la percezione contraria: avere una visione apocalittica significa mancare di speranza. Non è vero che tutto è compiuto: il processo storico umano è caratterizzato da spontaneità e creatività. Siamo più ricchi adesso che in passato: mio nonno non aveva possibilità di interagire con altre culture mentre oggi è normale. È un momento di grandi potenzialità per il genere umano.
Che significato ha per lei essere a Trieste?
È la mia prima volta qui, sto imparando a conoscerla. Mi sembra un porto nel senso più simbolico del termine: un luogo dove la gente arriva e parte. Tutte le sfide sopra citate qui sono amplificate: è la città della scienza internazionale ma anche quella della frontiera, come testimonia il Novecento.
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