Il libro. Ex Jugoslavia, le ragioni del massacro

In un saggio pubblicato dalla Leg Alastair Finlan analizza il conflitto nei Balcani tra il 1991 e il 1999 alla luce di armamenti e strategie militari

La sera del 28 agosto 1995, alle 20, poche ore dopo la seconda strage al mercato di Markale, a Sarajevo, con 37 morti e 90 feriti, il generale Sir Rupert Smith, comandante delle forze Onu schierate in Bosnia-Erzegovina, senza prima consultarsi con i vertici delle Nazioni Unite, né con gli Stati i cui soldati erano impegnati nelle forze Unprofor, chiamò il comandante delle Forze Alleate del Sud Europa della Nato. I due militari si trovarono immediatamente d’accordo sul fatto che la misura era ormai colma, e che se davvero si voleva dare una svolta al processo di pace nella ex Jugoslavia era ora di dare la voce alle armi.

Alle 3 del mattino del 30 agosto ebbe inizio l’operazione battezzata Deliberate Force. Nel corso della prima notte di combattimenti la Forza di reazione rapida dell’Unprofor martellò le postazioni serbo-croate con seicento colpi di grosso calibro e di esplosivo ad alto potenziale, mentre i cannoni dell’Unprofor schierati sul Monte Igman aprirono il fuoco a forcella su diciannove postazioni serbo-bosniache colpendole con precisione devastante, mentre dal cielo gli apparecchi della Nato eseguivano non meno di tremila incursioni contro almeno sessanta obiettivi terrestri. Durante tutto il periodo delle operazioni le trattative di pace proseguirono, in un crescendo della pressione militare da parte delle forze Onu e Nato, fino al decisivo e distruttivo lancio di tredici missili Tomahawk contro le postazioni di difesa antiaerea serbo-bosniaca a Banja Luka. Gli attacchi «dimostrarono che le forze serbo-bosniache erano poco più di una tigre di carta», e il 21 settembre l’operazione Deliberate Force ebbe ufficialmente fine, spianando la strada una volta per tutte alle trattative di pace.

C’era voluta una decisa azione di guerra per fermare la guerra nei Balcani, ma la domanda è: perché non era stato fatto prima? Perché aspettare tanto tempo e migliaia di vittime civili per arginare il massacro balcanico? A queste e altre domande tenta di rispondere . Alastair Finlan nel libro “Le guerre della Jugoslavia 1991-1999” (pagg. 141, euro 16) tradotto da Mauro Pascolat e appena uscito per la Libreria Editrice Goriziana nella collana della Biblioteca di arte militare (Bam). Esperto di strategia e storia militare, pur senza mai perdere d’occhio il contesto politico e diplomatico Finlan analizza i quasi dieci anni di guerre balcaniche sotto un profilo squisitamente militare, studiando le forze in campo, le formazioni impiegate nel conflitto, gli armamenti, le strategie ecc. Con una questione assillante che attraversa tutte la pagine del saggio: com’è possibile che, seppure di fronte a un conflitto dai connotati prevalentemente etnici le cui radici l’autore individua nell’«occupazione tedesca» cui seguì «un’aspra guerra civile», e per quanto inserito in un contesto dai delicati equilibri internazionali, siano potuti accadere tanti e tali massacri nei confronti dei civili? Com’è stato possibile un tale inumano macello (Finlan lo definisce «di tipo medievale») nell’epoca delle armi super sofisticate e delle tecnologie d’avanguardia? Si calcola, nota Finlan, che negli anni Novanta almeno 250mila persone «rimasero uccise nei feroci scontri etnici, mentre la comunità internazionale assisteva incredula al ripresentarsi del genocidio in un’era di modernità».

A differenza delle altre guerre più recenti, nota ancora l’autore, «dominate dall’impiego di armi altamente tecnologiche usate a distanza contro il nemico, in Jugoslavia si combatteva sostanzialmente una guerra corpo a corpo, in cui conoscenti si uccidevano fra di loro, il vicino ammazzava il proprio vicino, spesso con armi usate negli scontri sulla breve distanza come il fucile».

Dopo aver analizzato i prodromi della dissoluzione della Jugoslavia, e il ruolo dei maggiori attori in campo - da Tuðman a Miloševi„ - Finlan passa a esaminare la cronologia degli scontri e le forze coinvolte sul campo. Che furono almeno tredici: fra queste «il conflitto impegnò croati bosniaci, bosniaci musulmani (...) e serbi bosniaci, croati, serbi croati, kosovari, macedoni, montenegrini, serbi, sloveni, nonché combattenti dalla Voivodina, senza dimenticare gli uomini delle forze Nato e di quelle dell’Onu». Tutti attori a loro volta inquadrati in milizie, formazioni regolari, bande mercenarie e/o criminali, agenzie non governative. Analizzare il patchwork costituito da queste forze armate, dimostra Finlan, spiega molte cose, ad esempio perché la Jna, l’Armata popolare jugoslava, appoggiò da subito Miloševi„, in barba alla «sua lunga tradizione di neutralità e lealtà politiche alla federazione piuttosto che a una singola nazione». Con 180mila uomini, duemila carri armati, centinaia di automezzi corazzati per il trasporto truppe, seimila mortai, tremila cannoni contraerei e molto altro, di fatto «era evidente a tutti i belligeranti che in Croazia e in Bosnia-Erzegovina i serbi e i bosniaci erano molto più efficienti in termini di potenza di fuoco garantita da velivoli, artiglieria e carri armati rispetto ai loro nemici regionali». Una superiorità che non bastò a dare una svolta decisiva al conflitto, ma fu sufficiente a consentire il mantenimento delle conquiste iniziali e punire le forze d’opposizione. E fu proprio questo squilibrio «di carattere puramente militare» a causare «immense sofferenze fra i civili delle nazionalità coinvolte nella lotta fra i belligeranti». In definitiva, fu la mancanza di una vittoria da parte di chi era militarmente “più forte” a innescare «una spirale di caos, violenze e - secondo alcuni osservatori - di pura barbarie che si trascinarono per diversi anni». Questa specie di distonia bellica fu evidente sin dalla prima scintilla del conflitto, la secessione della Slovenia. Gli sloveni, sottolinea Finlan, erano preparati a fronteggiare la minaccia dell’Armata popolare jugoslava, grazie anche a una massiccia campagna avviata allo scopo di screditarla dentro e fuori i propri confini. Pertanto, quando «la Jna ricevette l’ordine di entrare in azione, le forze slovene avevano già messo a punto un piano di neutralizzazione contro l’invasore; fu adottata una strategia semplice ma molto efficace: le colonne dell’Armata sarebbero state circondate e i loro movimenti, avanti e indietro, bloccati da ostacoli come per esempio alberi abbattuti». A quel punto gli sloveni - molti dei quali appartenevano alle Forze di difesa territoriale -, «avrebbero aperto il fuoco contro le colonne intrappolate. i cui uomini erano in molti casi riservisti spaventati e tutt’altro che entusiasti di raggiungere la meta che li attendeva». La guerra-flash della Slovenia durò una settimana, e gli Accordi di Brioni generarono «l’errata convinzione che la diplomazia sarebbe riuscita a fermare i combattimenti nell’ex Jugoslavia senza il ricorso alla forza».

L’aspetto più tragico del fallimento della prima e decisiva fase della crisi, mentre si apriva il fronte in Croazia, «è che esso si ripercosse sulla popolazione civile, in quanto la guerra avrebbe condannato a una morte

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