IL NUOVO DUELLO E IL CONSENSO
Da oggi il Partito democratico avrà una sua direzione composta da 120 persone ed eletta su lista bloccata – si vota la lista nel suo complesso non è cioè possibile esprimere preferenze sui singoli. Il fatto mi riporta indietro di qualche anno, quando - all’interno di un partito che ora non esiste più - la proposta di votare i nomi dei candidati alla direzione nome per nome anziché su lista bloccata scatenò un putiferio: alla fine si votò nome per nome e a tutti sembrò che si fosse compiuto un gigantesco passo in avanti. Era il 1978 e accadeva al congresso provinciale del Partito comunista italiano. Niente di grave, la lista bloccata – e cioè la consacrazione del meccanismo cooptativo - ha la stessa nobiltà delle primarie o di qualsiasi altra cianfrusaglia si vuole mettere in campo la democrazia. Però è stridente con le premesse stesse da cui muove l’idea del Pd – quella cioè del virtuoso rimescolamento delle culture e delle famiglie politiche di origine e del ceto politico.
È il primo, ma non il solo aspetto di dissimulazione, che questa nuova formazione politica ha messo sul tappeto. Il secondo nasce da una generosa e indubbiamente necessaria forma di wishful thinking, cioè di profezia affidata a ciò che riteniamo virtuoso e desiderabile: in autunno – ha promesso Veltroni – gli italiani scenderanno in piazza contro il governo perché le condizioni economiche renderanno questo passo inevitabile. La mia personale convinzione è che tutti gli italiani (a destra e sinistra) dovrebbero in primo luogo augurarsi che le cose vadano economicamente bene per il Paese e la mia personale previsione è che a settembre se il Pd vorrà riempire qualche piazza (pratica del resto che porta a scarsissimi risultati) dovrà spendere parecchi soldi e noleggiare molti pullman e treni.
Le condizioni economiche negative raramente favoriscono la sinistra, meglio sarebbe essere più prudenti. E veniamo al terzo punto emerso dall’assemblea del Pd, il dialogo con il governo necessariamente si interrompe perché il presidente del Consiglio non riesce a distinguere fra interesse privato e pubblico e l’attacco alla magistratura ne è la riprova. La formulazione è impeccabile: peccato che al pari delle infinite altre che abbiamo sentito in questi 15 anni non sposti di un centimetro i consensi. Anzi dal fronte opposto il presidente del Consiglio, accetta una parte delle formulazioni di Veltroni – il dialogo osserva Berlusconi è ben che concluso e il capo del Pd visto lo spaventoso deficit lasciato a Roma non è legittimato a proporsi come leader politico.
Quindi, il presidente del Consiglio passa a raccontare agli Italiani che è in atto un attacco alla democrazia da parte della magistratura e annuncia che si presenterà al processo che lo aspetta il 7 luglio, sfidando i giudici golpisti. Il tutto, capirete, è bellissimo e – tralasciando il fatto che il nostro presidente ha più processi che capelli in testa – mi ricorda una stupenda immagine di alcuni anni fa: è la sera del 23 febbraio del 1981 quando il colonnello Antonio Tejero Molina al comando di circa 200 Guardie civili assalta con una pistola in pugno il Congresso dei deputati: a sbarrargli la strada è Manuel Fraga Iribarne leader della destra spagnola ed ex ministro di Franco. Il colonnello Molino ha la pistola in pugno: Manuel si strappa la camicia e offre il petto villoso alle pallottole di Antonio. Non vi racconto come va a finire, è piuttosto banale. Ancora teatro.
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