IL SOGNO DEL VECCHIO MARINAIO
Narrano che in navigazione, a ottant'anni suonati, sia stato ancora capace di tuffarsi a prua della sua barca e riemergere a poppa solo per prendere un po' di fresco. A ottantaquattro pare sia sia caduto da un'impalcatura di tre metri senza rompersi un osso. Un uomo di ferro, che dal '66 ha guidato come nessuno la barca più difficile e antica dell'Adriatico: la brazzera. Ora vuole realizzare un sogno: donare la sua imbarcazione a Trieste, la sua città adottiva. La vuole donare a chiunque capace di prendersene cura e portarla ancora per mare.
Qualche dato sul proprietario di questo esemplare unico della storia della navigazione. Nome: Ovidio. Cognome: Schiattino. Anno di nascita: 1922. Mestiere: insegnante di ginnastica in pensione. Segni caratteristici: dalmata di Zara, figlio di Mario e Antonietta, entrambi di Lissa, l'isola della battaglia. Stato civile: sposato con Sylva, detta «la marescialla», pure lei di Zara, dal '52 assistente sociale per il Comune di Trieste. Ecco cosa ci ha raccontato nella sua casa di Sistiana piena di carte nautiche. Schiattino, quando ha preso il largo? Presto. Avevo un papà comandante che mi ha imbarcato da piccolo. «Carso» si chiamava il piroscafo, e abbiamo fatto il giro dell'Africa. Vita dura, alle cinque di mattina già pulivo la stiva. Avevamo un carico di birra e tegole, la barca faceva i sette nodi. Vide l'Africa Nera… Al largo di Libreville, in Congo, fummo circondati da piroghe di indigeni che volevano vendere e comprare cose. Un mare pieno di squali! Buttavamo in acqua piatti rotti sporchi, quelli arrivavano attirati dall'odore del cibo, così ci divertivamo a sparargli. E la vita di bordo? Ero entusiasta, ma papà cercò subito di raffreddare la mia passione. Il mare gli aveva mangiato la salute, e alla fine ci lasciò che era ancora giovane. Sul letto di morte mi fece giurare che non avrei fatto il marinaio.
E lei giurò? Giurai e mantenni. Non diventai marinaio, ma da allora tutto il mio tempo libero lo dedicai alla vela. Con grande godimento. Il mare mi ha riempito la vita. La sua prima barca. Un beccaccino, ci facevo le regate. Poi sono passato alla classe «550». Col matrimonio e la nascita dei figli lasciai per un po' il mare. Ma mi era rimasta addosso la voglia. Volevo una barca meno moderna possibile. Con la vela di terzo... La brazzera! Non c'era barca più dalmata di quella, era il furgone della Dalmazia. Il trabaccolo era il Tir della costa, e la brazzera era un trabaccolo in formato minore. Perfetta per portare pietre e legna. Da bambino, a Zara, le vedevo passare tutto il giorno sotto casa. Brazzera se ciamava, perché se sburtava 'ssai coi brazzi. E si fondeva talmente col paesaggio che capitava di non vederla... Racconti. A pupa iera l'omo che tigniva el timon e fumava el spagnoleto... davanti vogava le done, le gaveva sete cotole, sete, ala maniera de Sansego, e niente mudande... Pensi, quelle sposate avevano la scollatura a «V» e quelle vergini ce l'avevano quadrata. Le barche erano piene di donne, morlacche o scoiane (contadine o donne di mare, n.d.r.) non importa. Ma come, l'uomo non remava? Ghe conto una. Riva a Zara una brazzera con un musso (asino n.d.r.) a prua, cariga de legni de Ulbo, quei che fazeva le bronze bone. Iera pachea, mar fermo come un oio, e vogava le done. Due done, mama e fia. El pare, natural, stava drio a fumar. I riva in Fossa, e lu sempre che el fuma. Le done scariga el musso, e lu sempre che el fuma.
Le done le meti el basto, le cariga i legni, le smonta l'albero, lo meti per tera, e quel fumava sempre... E allora? C'era uno ben vestito, che aveva seguito la scena con due signorine. Le donne della brazzera l'avevano visto e gli chiesero cosa avesse tanto da guardare. Lui disse che gli sembrava incredibile che a lavorare fossero solo le femmine. Al che la più vecchia rispose seccata: «La ghe diga ale due signorine che co rivo a casa voio l'omo fresco». Questa era la Dalmazia. Essere dalmati...cosa significa? Amar la tera e el mar, volerghe ben a tuti. Esser un poco prepotenti e anche sentimentali. Dura starne lontani. In esilio. Morivo dalla voglia di tornare. Ma ho aspettato fino agli anni Sessanta. Avevo ricordi troppo dolorosi. Poi arrivò la brazzera. Nel '65 trovai lo squero giusto, a Kramina sull'isola di Murter. Era di Miro Markov, un grande maestro d'ascia. Sceglieva ancora gli alberi ricurvi per fare le costole, cosa che oggi non fa nessuno. Il legno ce lo procurò il capitano Milutin di Zara: erano quercia e pino stagionati a regola d'arte, hrastovina e borovina.. In cambio gli demmo legno fresco di quell'anno. Poi andaste in mare...
Fu il 21 luglio del 1966, per il varo scegliemmo apposta il centesimo anniversario della battaglia di Lissa, l'ultima grande vittoria navale dei dalmati, e a Murter fu festa grande. La chiamai «Antal», dalle lettere iniziali dei nomi delle mie due figlie: Antonella e Alessandra. Descriva la... creatura. La coperta era dipinta di rosso, come le navi da guerra dell'ammiraglio Tegetthoff, sempre quello di Lissa. Il sangue in battaglia non si doveva vedere. Le fiancate erano giallo-nere, polenta e sepe come la bandiera dela Defonta... L'interno era una stiva convertita a dinette, alta solo un metro e quarantacinque, e non si stava in piedi. La cucina era un fornello da campeggio. Non c'era nulla di elettrico a bordo. Ma potevamo caricare 365 frizzantini di Valdobbiadene, 365 come i giorni dell'anno. E a prua c'era una botte enorme con l'acqua. Le manovre? El buma iera longo oto metri, se te rivava in testa, te ieri morto. Novanta metri quadrati di vela… per otto mentri e mezzo di albero...
In compenso la chiglia era bassa e il timone pescava solo un metro: così entravamo dappertutto, potevamo ormeggiare in baie dove non entrava nessuno. In tanti anni non siamo mai entrati in una marina... Mai! Le secche, poi, le saltavamo in allegria... e a molti che ci seguivano capitava che si arenassero per causa nostra…. E quando incrociavate altre barche? Gli equipaggi morivano di curiosità, pensavamo che fossimo matti, ma cercavano ogni scusa per venire a bordo. Quella volta non era difficile, le visite di cortesia erano quotidiane. Non è come oggi che ci si guarda in cagnesco. Racconti. Il primo anno arrivai a Trieste nei giorni dell'alluvione del '66. C'era solo bonaccia o bora… un tempo da bestie, e io ero da solo a bordo. Ma arrivai, la barca era stabile e sicura. Da allora non l'ho mollata più. D'estate diventava una locanda navigante, eravamo anche in diedi a bordo. C'era sempre allegria. Paura mai? Una volta ci prese un neverìn alle Isole Incoronate, e la nostra era l'unica barca stabile capace di ormeggiare sotto costa al riparo.
Molti si rifugiarono da noi... dormimmo in ventitrè quella notte. Un pezzo di bravura. Le piroette sotto la Vespucci... e poi il varco di sei metri di Sdrelac, tra le isole di Uglian e Pasman, nel canale di Zara. Infilarsi là dentro controvento e controcorrente, senza motore, e con una vela di nove metri che non consentiva la bolina, non era cosa da tutti. Come faceva? Prendevo velocità col vento in poppa, poi via al lasco, poi cazzavo e strenzevo per infilarmi nella cruna dell'ago. Ce l'ho fatta sempre. Quanto a lungo l'ha usata? In Dalmazia fino al '92, poi mi sono limitato alle uscite fra l'Istria e Trieste. Ho fatto con onore le mie Barcolane e ho vinto anche il primo posto di categoria. «Antal» era così bella che l'hanno ingaggiata per parecchi film. Per «La coscienza di Zeno» l'hanno portava via terra in Canale attraversando via Cassa di Risparmio.
Quanto ho riso con Dorelli, la Brigliadori e col regista Bolchi!. Ora dov'è «Antal»? Un fortunale me l'ha danneggiata e ho dovuto tirarla a riva. Ora è in un capannone alle foci del Timavo. Per me non è più tempo di navigare con una barca così difficile. Vorrei regalarla. Regalarla? Amor no se vendi e no se compra, se no se va in casìn. Amor se regala. Ma a chi? Credo che ci siano poche persone in grado di portare una barca così difficile. Non posso pensare che «Antal» sia a fine carriera. Serve un restauro. Esattamente. Questa barca è un patrimonio culturale. La regalerei a un'istituzione o a uno Yacht Club in grado di garantirne il restauro. Non esiste modo migliore per ricordare la civiltà dalmata. C'è un museo in allestimento su questo tema. Quello sarebbe perfetto, e so che non manca il denaro. Andrebbe bene anche il Museo del mare, che è uno dei pochi d'Europa che non ha una barca in acqua. Possibile? A Rovigno hanno dedicato un museo magnifico alla «Batana» e attorno ci organizzano raduni di barche classiche... Perché Trieste dorme?.
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