In licenza per seppellire la moglie e salutare il figlio di otto anni

La foto un po’ sbiadita ritrae mio nonno, Toni Gherbaz, in divisa del genio militare dell’esercito austroungarico. Pacifico falegname nella vita civile. L’immagine è stata colta nel corso della Prima...

La foto un po’ sbiadita ritrae mio nonno, Toni Gherbaz, in divisa del genio militare dell’esercito austroungarico. Pacifico falegname nella vita civile.

L’immagine è stata colta nel corso della Prima Guerra mondiale in un “atelier” di Marburg, oggi Maribor, in Slovenia. Dalla posa un po’ studiata sembra che il nonno fosse abbastanza orgoglioso di mostrarsi in divisa, anche perché forse questa è stata una delle ben poche foto che gli sono state scattate nella sua vita, e dunque un’occasione importante.

Dei ricordi di guerra del nonnno me ne sono stati trasmessi da mio padre due in particolare: semplici parole di chi nutriva un certo ritegno a fare grandi discorsi, ma forse ogni parola poteva valere una frase.

Il primo riguarda le sensazioni di un semplice soldato nel corso della sfondamento a Caporetto: «Camminavamo come inebetiti nei fondovalle nebbiosi verso il Friuli e l’erba era tutta gialla per i gas. Dalle mie parti non avevo mai visto un’erba di quel colore neppure nei periodi di siccità. I germanici ci precedevano, noi venivamo dietro. Siamo entrati in qualche casa. Terribili le cose che vi abbiamo visto. Alcuni di noi cercavano di parlare in dialetto istriano con i civili impauriti che incontravamo. Mi dicevo dentro di me che in fondo noi soldati austroungarici del Litorale eravamo più buoni degli altri. Alla fine mi sono ritrovato a costruire ponti sul Piave. Poi, per fortuna, tutto è finito».

Il secondo ricordo, ancora più telegrafico, ma forse più intenso: il funerale di mia nonna in Istria nel 1916 e il distacco dai figli.

«Ho avuto una brevissima licenza perché mi era morta la moglie. Non mi sono neppure tolto la montura e le ho fatto la cassa e poi l’ho portata al cimitero di Merisce. Zaino in spalla sono ripartito subito verso Kozina per prendere la tradotta. Mio figlio, Toncic, quello di otto anni, non voleva staccarsi da me. Mi ha seguito a piedi per un po’ poi, dopo Oscurus, è rimasto indietro».

Mi chiedo perché anche dopo tanti anni, e in un’Europa che vuole essere senza confini, lasciare in un semi-oblio le migliaia di vicende che triestini e istriani di lingua italiana, slovena e croata, e le loro famiglie, hanno patito? Vicende che nelle loro conseguenze hanno continuato a segnare per lungo tempo anche le generazioni successive.

A quanto ne so questo oblio non è avvenuto nella provincia di Trento.

Franco Gherbassi

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