«Io, chirurgo alla fine del mondo in lotta contro la sofferenza»

Il dottor Giorgio Pellis arriva all’appuntamento in bicicletta. In molti, e molte, assoceranno il suo nome alla cura del tumore al seno, ricordandolo come primario del Sanatorio Triestino. Ma lontano da qui, lontano dal nostro modo europeo di intendere la prevenzione e la prospettiva sanitaria, Pellis diventa più di un eccellente chirurgo. Seduto a un tavolino del Caffè San Marco, il medico triestino, ora in pensione, racconta di essere tornato da poche settimane dall’isolatissimo ospedale di Chiulo, in Angola. Uno di quei posti localizzati «all’ultimo chilometro», ricchi di savana spinosa e di baobab, dove difficilmente arrivano le organizzazioni umanitarie che spesso restano confinate nelle città principali. Al contrario, uno di quei posti privilegiati da Medici con l’Africa-Cuamm, l’ong con cui Pellis viaggia dal 1974, operando e insegnando. Ma, all’occorrenza, trasformandosi anche in ostetrico e ginecologo, o improvvisandosi tecnico per risolvere contingenze come il razionamento dell’acqua.
Salute e sviluppo
«La nostra scelta – spiega – è quella di affiancare la salute allo sviluppo dei paesi. Si risponde, oggi sempre di meno, a una precisa richiesta da parte di chiese missionarie che hanno una loro sede in alcuni paesi e, sempre di più, a richieste dei governi. Più è fragile l’ambiente socio politico, più restiamo a lungo». La presenza di un chirurgo è fondamentale. Perché tanto più un ospedale è forte e stimato dalla popolazione, tanto più è in grado di lavorare, organizzare e distribuire servizi. Inoltre, in molti luoghi dell’Africa «la sanità è elastica». Questo significa che al momento della semina le mamme lavorano e i bimbi non si possono curare, cosa che succede anche quando inizia la scuola, si comprano le uniformi e bisogna rinunciare al resto. Se poi il padre non può più lavorare per un problema fisico, si genera il collasso economico della famiglia. «È difficile pensare di introdurre i concetti di risparmio e di assicurazione – puntualizza Pellis -. Una popolazione che ha un’economia di sussistenza, automaticamente ha anche una salute di sussistenza».
Dialogo e malattia
Così, quando le persone si presentano per farsi curare, viene spiegato loro che esistono diversi modi per affrontare la malattia. «Entrare in dialogo è difficile, ci sono aspettative e modi di ragionare diversi. È facile relazionarsi se passi attraverso degli elementi concreti, come star male o no», riflette il medico, ricordando di aver mantenuto sempre una certa «distanza dai pazienti». L’ostacolo emerge spesso dal punto di vista comunicativo. Eppure, ascoltando i racconti di Pellis, viene da pensare che questa lontananza, pur nella massima professionalità, per alcuni attimi si affievolisca. La sua voce ci porta a immaginare incontri con pazienti sottoposti a lunghe degenze che, una volta guariti, hanno regalato gesti di fiducia piccoli ma significativi, espressioni di serenità e sincere strette di mano che vanno ben oltre le parole.
Cristiàn e Mario
Il dottore, oggi, non si è certo scordato di Cristiàn, 7 anni, arrivato all’ospedale di Chiulo lo scorso dicembre perché morso da un cobra. «Il serpente, se non uccide, ha degli effetti devastanti sulla pelle. Lui l’ha persa tutta, dal piede fino a mezza coscia. Il veleno la manda in necrosi. Bisogna fare degli innesti cutanei quando è il momento giusto e in pochi li sanno fare. A dicembre era tutto un lacrime e pianti. Dopo l’ultimo trattamento, Cristiàn mi ha fatto un sorriso, per la prima volta». Ma il medico ha impresso nella mente anche il viso di Mario, 10 anni. «Aveva un’osteomielite, cioè un’infezione alle ossa. L’interno dell’osso lungo era diventato una sacca di pus e bisognava scalpellarlo, creando una ferita molto grande. È stato da noi molti mesi, da settembre fino a febbraio e alla fine gli ho detto: “ora vai!”» . Mario, in seguito, è tornato all’ospedale per mostrare i suoi progressi a chi l’aveva aiutato. «Sono cose che non si dimenticano, anche se il mio obiettivo è essere dimenticato», commenta. Ma ricorda anche la felicità di un anziano, operato alla prostata, una volta sfilato l’ultimo catetere e non appena arrivato il momento della dimissione.
Rimedi locali
I modi rispettosi di Giorgio Pellis emergono anche nel contatto con i pazienti curati con i “rimedi africani”, ritenuti, a seconda delle situazioni, più o meno efficaci. «Molte persone venivano da noi perché avvelenate per medicina tradizionale. Noi ragioniamo in termini di farmaci, quindi di molecole e di chimica e capita spesso di non sapere cosa abbiano assunto». Gli chiediamo come sia riuscito a comunicare con quelli che qualcuno definisce “stregoni”. «Non ne ho mai visto uno – svela –. Quando lavoravo in Kenya, il Cuamm aveva deciso di avere un approccio antropologico alla medicina tradizionale. I medici locali sono stati avvicinati da un antropologo. Così ho cominciato a rapportarmi in maniera indiretta: loro ci mandavano i casi chirurgici, perché la chirurgia da loro non è contemplata, e io mandavo loro i casi che non potevo risolvere, facendo affidamento su questo rientro sociale». È il caso di un signore affetto da tumore al pancreas, incurabile. Era possibile alleviare il dolore ma il paziente sarebbe comunque deceduto. Grazie alla sua mediazione, Giorgio Pellis, in Kenya, ha ricevuto da una tribù una sorta di “laurea honoris causa” in medicina tradizionale. A questo punto, la curiosità verso qualche dettaglio di questa remota pratica sanitaria è difficile da contenere. Ma il dottore, rispettoso dell’impegno preso, è inflessibile: non può svelarci nessun segreto.
Mancanza d’acqua
Ma quali sono le grandi emergenze a Chiulo? La più grave è la mancanza d’acqua, battaglia principale del gruppo d’appoggio Cuamm triestino. «Se non c’è sterilità, non si fa chirurgia» dice Pellis, dopo averci mostrato una foto emblematica: un clistere infilato nel muro per ottenere acqua corrente ed evitare di utilizzare quella stagnante di un catino, abbattendo così la possibilità di infezione. «L’ho ripescato in un angolo del servizio farmacia, ho accorciato il tubo e ho lasciato dentro la sua canula». L’ospedale necessita anche di una macchina per i raggi, da sostituire a un «ammasso di ferri vecchi». E, infine, persiste la piaga della malnutrizione. «È una delle malattie principali in Africa – conclude il medico triestino – possiamo chiamarla tranquillamente “malattia” anche se è una condizione, perché appesantisce la vita e, allo stesso tempo, il rischio di morte diventa molto più elevato in presenza di carenze nutrizionali di vario genere. Un malnutrito che si ammala di morbillo in Africa ha 4 mila volte in più la possibilità di morire».
Sofferenza e distacco
Mentre Giorgio Pellis ci saluta e inforca la bici, tornano in mente alcune frasi di un suo report pubblicato sul sito dell’ong, scritto dall’Uganda nel 2016. «Quello che dovrai prendere con le mani è quanto di più privato appartiene ad una persona: il proprio corpo. Nello stesso tempo devi essere così distaccato da fare il tuo lavoro con un atteggiamento libero da emozioni, non coinvolto, capace di portare la sofferenza ma anche di dimenticarla un minuto dopo, in grado persino di sopravvivere alla morte di chi tenti di curare e questo, tante volte, è una tua piccola morte».
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