Joyce era un cliente assiduo dei bordelli triestini

Nel romanzo “Vedrò Singapore” lo scrittore Piero Chiara descrive il lussuoso e molto ben frequentato palazzo di via dei Bonomo, angolo viale XX Settembre, “Villa Orientale”. A dare sfogo negli anni ‘30 alle fantasie sessuali che il talamo coniugale non era in grado di soddisfare, la crème dei notabili triestini che abitualmente varcava la porta della maison d’appuntamenti più in voga nell’alta società. E anche la più discreta: nonostante il pagare per ricevere in cambio il piacere fosse un costume socialmente accettato, i gentiluomini non desideravano però sbandierare ai quattro venti la loro vita sessuale. Una casa selettiva per una clientela d’élite, insomma. In ogni caso le alternative per il resto della popolazione maschile, divisa per capacità di portafoglio, non mancavano di certo: in Cittavecchia, c’erano infatti oltre 40 case di tolleranza in cui esercitavano circa 300 prostitute regolarmente schedate. Un vivace e florido quartiere a luci rosse ad alto tasso di eros, il cui periodo di massimo splendore mercenario è stato la prima metà del ‘900. Fino insomma all’approvazione nel 1958 della legge della senatrice Merlin che aboliva le case chiuse. Non tanto per cancellare la professione quanto lo sfruttamento da parte dello stato, che “tollerava” ma pure incassava. Uno spaccato della storia cittadina non molto conosciuto e pochissimo documentato, di cui parlerà il giornalista e storico Bernardino de Hassek questo pomeriggio alle 18 alla Casa della Musica, nel corso della conferenza promossa dall’associazione culturale Accademia dell’Immagine “Le case a luci rosse di Trieste: storia del mestiere più antico del mondo”. Un tuffo nel mondo delle “filles de joie” che esercitavano sotto stretto controllo sanitario e con regolare permesso rilasciato dalla Questura. Bordello, casino, casa chiusa, d’appuntamenti o di tolleranza: il nome cambiava secondo il livello dei clienti, dei servizi offerti, dell’avvenenza e dell’ars amatoria delle signorine. «
«Per la peculiare storia di Trieste, prima città porto dell’impero, poi sotto l’occupazione tedesca e in seguito quella anglo-americana, le case chiuse cittadine presentano una fotografia molto variegata”, spiega de Hassek. Che approfondendo il saggio di Eric Schneider “Zois in Nighttown” sulla prostituzione a Trieste nell’epoca di Joyce e Svevo e spulciando gli archivi della polizia e dell’ospedale durante l’amministrazione austriaca, ha scoperto per esempio che le signorine erano tutto sommato sane: tra il 1908 e il 1913 l’ospedale ricoverava per malattie veneree non più di cinque donne all’anno. Durante l’occupazione tedesca con teutonico pragmatismo nell’atrio della stazione centrale c’era persino l’elenco delle case autorizzate. Famose anche le “X” cerchiate sui muri di Cittavecchia con la scritta “Off limits”, che indicavano le case proibite alle truppe del Gma. La zona brulicava peraltro di trattorie a buon mercato e “petesserie”, abbordabili per marinai e soldati, che tra un “bicer” e l’altro ne approfittavano anche per sfogare i bollenti spiriti. “Le “triestine” erano rinomate per le gambe lunghe e per essere disinibite, e del resto le case erano in grado di accontentare la variegata clientela”, aggiunge lo studioso, che ha individuato alcune maison dai nomi stravaganti. Come “La Francese”, raffinata casa in voga negli anni ’40 in via dei Capitelli 6, che distribuiva ai clienti il biglietto da visita in francese, tedesco, spagnolo e inglese. Sempre nel sex district di Cavana anche la “Chiave d’oro” e “El regno delle oche”.
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