La laguna soffoca tra fanghi e mercurio

AQUILEIA. L’appuntamento a Marina d’Aquileia è alle 7.30. Saliamo sulla barca e nel giro di pochi minuti salpiamo. Arriviamo in laguna percorrendo il tratto finale dal fiume Natissa e imbocchiamo in direzione ovest la Litoranea Veneta, l’autostrada d’acqua che da Monfalcone porta fino a Venezia. «Bisogna uscire ‘a orario’ perché non c’è abbastanza fondale – spiega Claudio, comandante dell’imbarcazione -. Ci sono le barche a vela che spesso restano incagliate e, quando ti succede, devi aspettare che arrivi l’alta marea. Noi, però, planiamo e non abbiamo di queste preoccupazioni». Le parole di Claudio evidenziano il primo dei problemi della Laguna di Grado e Marano: quello dello scavo dei canali. E la questione è strettamente connessa con il secondo e principale problema: quello dell’inquinamento da metalli pesanti che, nel 2002, ha spinto l’allora governo Berlusconi a decretare lo stato d’emergenza nominando un commissario delegato.
Alla guida della struttura, fino al 30 aprile, ci sarà il geologo Gianni Menchini. Prima di lui si sono alternati gli ex assessori regionali Paolo Ciani e Gianfranco Moretton. Chiedersi se a dieci anni di distanza abbia ancora senso parlare di emergenza o se piuttosto non si debba considerare d’essere in una situazione di ordinaria amministrazione, è naturale. È innegabile che in dieci anni, tra studi di caratterizzazione, dragaggi, trattamento dei fanghi, convegni e studi vari molto è stato fatto, ma la sensazione è che comunque le energie e i denari spesi in regime di “straordinarietà” non abbiano portato a risultati definitivi. Per la bonifica del Sin, il sito inquinato d’interesse nazionale, sono stati spesi 133 milioni di euro. Il punto è che sui 565 chilometri quadrati della Laguna di Grado e Marano si incrociano diversi interessi, non tutti conciliabili tra loro. Ci sono quelli industriali, quelli naturalistici, quelli turistici e quelli della pesca. Secondo i calcoli, dalla fine degli anni ’40, dall’impianto di Torviscosa, sono stati sversati in laguna 186mila chilogrammi di mercurio. A questi si devono poi aggiungere quelli portati a valle dalle cave estrattive di Idria attraverso l’Isonzo. È chiaro che tutto questo non si può eliminare dall’oggi al domani e neppure in un decennio.
Che la laguna sia considerata «un’area ad elevata pericolosità sanitaria e ambientale» sembra essere un dato di fatto, ma questo non toglie che il problema delle concentrazioni di mercurio debba essere affrontato in modo scientifico e non allarmistico. I tecnici fanno notare che si deve distinguere tra mercurio biodisponibile e mercurio indisponibile (cioè che non entra nel ciclo della catena alimentare). In questo senso il problema degli sversamenti di Torviscosa e dei residui estrattivi di Idria è quindi da inserire in un contesto più ampio. Che si dovrebbe cominciare a pensare a un regime di programmazione ordinaria, più che straordinaria, lo sostengono in molti. Il fatto è che in campo ambientale ogni azione ricade sotto una mole di norme di non facile gestione. È quindi difficile trovare un soggetto che si prenda la responsabilità e che agisca in nome di tutti gli attori coinvolti (solo i Comuni che si affacciano sulla laguna sono 15 e tutti e tre i commissari delegati sono stati sottoposti a indagini da parte della magistratura di Udine). Ecco allora che il commissario fa comodo un po’ a tutti. Secondo la maggioranza degli amministratori, in ogni caso, l’emergenza esiste ancora e la laguna deve continuare ad essere gestita con un regime in deroga.
I canali vanno dragati, ma c’è il problema del trattamento dei fanghi e del dove metterli. In questo senso una soluzione potrebbe arrivare dall’atteso Protocollo Marano-Grado, replica del Protocollo Venezia 1993. Questo prevede che, a seconda delle concentrazioni di metalli, i fanghi possano essere trattati in modi diversi e non necessariamente essere considerati rifiuti tossici. Nelle concentrazioni più basse possono andare “a diretto contatto con le acque lagunari” per interventi di ripristino di barene, velme e bassi fondali. Per i sedimenti di classe media viene consentito l’impiego per il ripristino di isole lagunari “realizzate in maniera tale da garantire un confinamento permanente del sedimento utilizzato rispetto alle acque, impedendo ogni rilascio di inquinanti”. Per quelli di classe più elevata, comunque non classificabili come rifiuto tossico, viene concesso il riutilizzo fuori dalla laguna. Il protocollo, da un lato, permetterebbe di risparmiare centinaia di migliaia di euro perché i fanghi non verrebbero più trattati alla stregua di rifiuti tossici; dall’altra, salvaguarderebbe l’erosione della laguna perché il materiale asportato dal fondo dei canali rimarrebbe nel sistema laguna ripascendo così le barene, vere e proprie barriere contro il moto ondoso. Ma a livello pratico, per chi frequenta quotidianamente questo ecosistema delicatissimo, permetterebbe finalmente di dragare i canali, rendendo sicura la navigazione.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo