La parabola dell’antipolitico: i 15 anni dell’era Illy
Dalla spallata al Melone alla conquista della Regione: i tre lustri che hanno cambiato Trieste
TRIESTE
Dicono che, almeno a Trieste, gli sia risultato fatale l’appoggio all’odiata lingua friulana. Ovviamente sfruttato dagli scafati berluscones regionali (e locali) per indirizzare il voto verso un presidente che più friulano non si può. Dicono anche che come sanno essere autolesionisti i triestini non sa esserlo nessuno, ma questa è un’altra storia. Riccardo Illy si fa da parte. Molla nel silenzio, con una reazione che suona infantile ma in realtà è forse più matura di quello che si possa pensare. Per un uomo abituato solo a vincere, un bel bagno d’umiltà. Che lo sottrae al tritacarne mediatico, è vero, ma lo costringe allo stesso tempo a confrontarsi con i rimpianti, i tradimenti veri o presunti, le contraddizioni che ne hanno attraversato una carriera politica fulminante ma condotta costantemente sul filo del collasso.
Bella scommessa, quella vinta dal Riccardo per almeno 15 anni. Si trattava di governare coalizioni col peccato originale, quasi lombrosiano, di annoverare «comunisti» al loro interno, partendo da idee e progetti che non avrebbero sfigurato in un «book» della Confindustria. E c’è riuscito, imponendo per lunghi periodi il pensiero unico. Il suo. Perché una cosa è stata chiara a tutti fin da quel lontano 1993: Illy non si comanda o suggestiona, al massimo si asseconda. Perchè, ricco del suo, non ha bisogno della politica. Perché, da sempre, ha più certezze che dubbi. Perché tollera a stento le manfrine, le tattiche, le dilazioni. E meno ancora i politici professionali, quelli che senza un incarico devono pensare a trovarsi un lavoro vero. Chissà se questi pensieri avevano attraversato la mente della delegazione del centrosinistra che sul finire del 1992 bussò sommessamente alla sua porta. Il nome Illy non aveva ancora l’enorme, globale impatto d’immagine di adesso ma costituiva già una presenza industriale rilevante in Italia e in Europa.
Si trattava di compiere una missione impossibile: scalzare dal Comune la coalizione destrorsa che, con rari intervalli, governava la città da almeno 15 anni. I gossip dell’epoca dicono che tra l’altro la «gauche» era arrivata buona seconda nella proposta ma Illy, che non si è mai considerato uomo di destra, preferì glissare, con gran scorno soprattutto di Roberto Menia di An, che gliela giurò. Alla cloche si mise dunque il pilota Giulio Staffieri che, tra discorsi alle pantere grigie dei tanti salotti e feste patriottarde dava per scontato il perpetrarsi della gerontocrazia listaiola. La domenica delle elezioni comunali del ’93 rimase con la forchetta a mezz’aria mentre mangiava un’orata, in un servizio televisivo che è rimasto un «cult». Si, Illy ce l’aveva, gliel’aveva fatta. E varò subito una giunta giovane, prevalentemente fatta di amici e tecnici dai quali pretendeva molto, ben coadiuvato dal suo Richelieu, il rimpianto Roberto Damiani.
Con la coalizione non furono rose e fiori. Illy decideva e non accettava nè mediazioni nè tantomeno critiche. In questo gruppo costituito con la sua lista civica, popolari e diessini, anticipando sia l’Ulivo che il Pd, l’ultima parola era sempre la sua ma i progetti, sfrondati dei tempi morti della politica, andavano avanti: il rifacimento di piazza Unità, condotto tra le proteste del popolo del «liston», la riqualificazione di Cittavecchia, la galleria San Vito, l’area di Passeggio Sant’Andrea, il nuovo PalaTrieste e l’avvio della cittadella sportiva sono tutte realizzazioni di quegli anni. Ma anche le polemiche con i diessini che, quando votò contro la proposta di un registro per le coppie di fatto dichiararono, con Fabio Omero, «di non essersi aspettato un atteggiamento simile da un valdese». In realtà più che altro è un calvinista, duro con gli altri ma anche con se stesso. Dotato di una memoria eccezionale, si è dimostrato l’antipolitico per eccellenza, come quando, scavalcando i patetici equilibrismi linguistici della nostra classe politica media, lasciò senza parole un boss della Pittway improvvisando sul momento un discorso complessissimo in inglese perfetto. O quando, neoeletto presidente della Regione, entrò nel palazzo della giunta con la sua moto Bmw, poi usata anche per la prima missione all’estero, a Salisburgo. Un modo per dire: non sono come gli altri.
L’approdo a Roma, dopo due mandati in Comune, fu quasi un atto naturale, nel 2001. Illy era ormai considerato l’Asso pigliatutto, il Re Mida delle urne e per questo la coalizione accettò anche che la scelta del suo successore la facesse direttamente lui, indicando lo spedizioniere Federico Pacorini. Un errore che riconsegnò la città alla destra (ne riferiamo a parte) e incrinò in maniera irreparabile il rapporto con Damiani, che si considerava suo successore naturale. Nell’Urbe l’approccio non fu entusiastico, la quotidianità banale per uno che, abituato a dirigere, si trovò a svolgere lo scomodo ruolo dell’opposizione. Ma le vacanze romane terminarono presto, con suo grande sollievo, pare. C’era una nuova missione, riconquistare la Regione. E ci riuscì anche stavolta, battendo il territorio con precisione e determinazione chirurgica, lasciando basiti sindaci che prima ancora di aprir bocca si sentivano snocciolare l’abc della loro cittadina, conquistando categorie economiche che dei fantasiosi maneggi di Tremonti ne avevano piene le tasche. 2003, un secolo fa. Mentre Illy nel suo mandato ridisegnava completamente l’amministrazione, affidandosi ai soliti amici di sempre (il più gettonato tra gli errori che gli vengono attribuiti), cercava di risagomare enti e finanziarie che non fossero più carrozzoni ma aziende sane, dava al Friuli Venezia Giulia un’immagine che, complice sicuramente il suo «marchio», non aveva mai avuto, l’Italia, la stessa regione viravano verso il mugugno senza che nessuno se ne accorgesse.
«Forse l’abbiamo lasciato troppo solo – dice adesso Ettore Rosato, sottosegretario in uscita e fresco deputato – sicuri che come sempre avrebbe fatto tutto lui». Forse. Di certo, per capire se l’abbandono è stato un affare Trieste e il Gran Silenzioso avranno tempo. Ma, in realtà, neanche tanto.
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