La pena capitale esiste ancora in 58 stati

Iniezioni letali, sedie elettriche, plotoni di esecuzione, lapidazioni, camere a gas, capestri. In una sessantina di Stati la pena di morte ancora oggi viene inflitta nel nome della legge e del popolo “sovrano”. Allo stesso tempo alcuni di questi Stati pretendono di diffondere a livello mondiale il progresso, la libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti dell’uomo congiunti a una cultura liberale e multietnica. Una contraddizione palese, un problema etico e allo stesso tempo una questione pragmatica. Ecco perché in molti si chiedono da anni se è lecito eticamente togliere la vita a un uomo, sia esso criminale o meno. In sintesi può un giudice, o una giuria, decidere legalmente della morte di un uomo pensando in questo modo di proteggere la società e i cittadini?
I dubbi sull’applicazione della pena capitale in effetti sono di antica data. Più di tre secoli fa i filosofi iniziarono a porsi il problema dell’eticità e della funzione deterrente della pena di morte che fino a quel momento tutti ritenevano scoraggiasse i delinquenti a compiere azioni criminose. Non era e non è vero. Le uccisioni legali non fermano il crimine. Tutt’altro.
Ecco perché secondo una statistica di Amnesty International, risalente al marzo 2014, sono 140 i Paesi che hanno abolito la pena di morte mentre al contrario in 58 Stati è ancora in vigore: tra questi gli Stati Uniti. Il Giappone, l’India, la Cina.
L’Italia al contrario si è sempre posta, anche prima della sua unificazione in un unico Stato, come portavoce di diritti fino ad allora non riconosciuti.
Il Granducato di Toscana fu infatti il primo Stato civile al mondo ad abolire la pena di morte. Era il 1786 facendo e il granduca fece proprio quanto Cesare Beccaria aveva affermato pochi anni prima nel suo saggio “Dei delitti e della pene”. “Non è l'intensità della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma ripetute impressioni che da un forte ma passeggero movimento.”
Da più di mezzo secolo l’articolo 27 della nostra Costituzione non ammette la pena di morte e gli articoli 17 e 21 del nostro Codice Penale riconoscono come massima pena l’ergastolo. Ma anche su questa pena è aperto da anni un intenso dibattito.
Ad eccezione di alcune marginali indagini statistiche che rivendicavano la necessità della pena di morte per prevenire gli omicidi, la maggior parte degli studi effettuati giungono ad un unico e concordante risultato: la pena di morte non ha alcun effetto deterrente maggiore del carcere a vita.
Inoltre essendo l’omicidio di per sé un atto prevalentemente legato alla sfera irrazionale dell’individuo, spesso, le conseguenze, come una pena di morte, non vengono considerate dai delinquenti. In recenti studi di criminologia, viene ravvisata, non solo l’inesistenza della deterrenza della pena capitale ma anche un effetto brutalizzante della stessa, poiché lo Stato che uccide commette un crimine.
Così, mettere fine alla vita di un altro diventa moralmente accettato dalla comunità, nel degrado del rispetto della vita umana. Questo si spiega anche col grande mercato ed utilizzo di armi presente negli Stati Uniti, difficilmente concepibile in un paese come il nostro, anche se giustificato al solo scopo di difesa.
Le sentenze, come si è visto, non sono prive di errori, quindi non si può avere la certezza di poter ledere un diritto inviolabile come la vita.
Elisa Casciano
II B liceo classico
Francesco Petrarca
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