LA QUESTIONE IMMORALE
Ogni tanto torna preoccupante la questione morale, ciclicamente, come un male di stagione. Non prevede vaccinazioni. Si accende una luce rossa, scattano allarmate riflessioni. Su cosa? Morale e immoralità, è chiaro. E si parla, ovviamente, di questa immoralità che si diffonde a macchia d'olio con vari nomi, per esempio corruzione. Ne restiamo ogni volta quasi sorpresi, come se l'altra parola, morale, fosse un bene comune che ci è sfuggito di mano e che ora si tratta di riportare a casa.
Non abbiamo idee tanto precise di questo supposto bene, di cui ciascuno sarebbe proprietario, e non sappiamo da dove venga, se e come l'abbiamo utilizzato, perché l'abbiamo stupidamente dilapidato. Sembra che sappiamo molto meglio cosa sia l'immoralità, quasi fosse l'acqua in cui quotidianamente nuotiamo. La nostra acqua. Sarebbe dunque più verosimile chiamarla questione immorale e vedere come riteniamo di starci dentro senza annegare. Sarebbe meglio non prendere in giro noi stessi e dirci: eccoci qua, siamo proprio noi.
Quando, più di quarant'anni fa, Pier Paolo Pasolini cominciò a pubblicare i suoi scritti "corsari" (che erano articoli di giornale) e disse che ormai in Italia si era consumata una "mutazione antropologica", tutti ne rimasero profondamente colpiti e scandalizzati. Aveva ragione, sembra quasi banale riconoscerlo oggi. Chi non è d'accordo? Il fatto è che ancora oggi nessuno vuole crederci. Una potente ideologia moralistica ci fa continuamente velo.
Dovremmo prendere atto che l'italiano medio (dunque, nessuno escluso) si muove in una specie di fanghiglia che, nobilitandola, possiamo chiamare immoralità. Ma anche fanghiglia è un termine moralistico e dunque falso. Ci muoviamo, in realtà, dentro i nostri materiali interessi piccoloborghesi che sono quelli del consumismo senza pietà e del reale disinteresse verso chi ci è intorno. L'altra faccia della globalizzazione (ah, se Pasolini fosse vivo!) è questo egoismo spietato. L'unico gesto "etico" che forse ci resta da spendere è guardarlo in faccia questo egoismo, cercare di capirlo e di sapere come possiamo abitarlo. Tutte le forme di pietà con cui possiamo abbellirlo risultano dei risibili tentativi di allontanarne la crudezza, per salvarci un po' l'anima e magari dormire tranquilli.
Per esempio, non è cinismo ma realismo (e qui di nuovo Pasolini può esserci maestro) riconoscere che la frontiera tra privato e pubblico non esiste più da tempo. I vizi pubblici (delle pubbliche virtù è meglio scordarsi) fanno un unico circuito con i vizi privati: l'omologazione tra individuo e società si è realizzata in pieno, come i media non fanno che attestarci. Nessuno può nascondere sotto il tappeto i supposti vizi privati, che anzi tutti ormai sbandieriamo, perché la stoffa dell'individuo è la stessa stoffa che riveste società e istituzioni: cronaca nera, cronaca giudiziaria, cronaca politica compongono un unico vestito per tutte le occasioni e per ogni stagione.
Bisogna intanto saperlo, senza continuare a illuderci che possiamo tirarcene fuori con qualche buon proponimento. La questione morale nasconde questo trucco, che una volta chiamavamo doppia verità.
Occorre smascherarla, con tutta la sua coda di valori appiccicosi e artificialmente rianimati. Per esempio, quando parliamo di «vita» (o di «vite», molte delle quali valgono per noi evidentemente meno di altre), come possiamo pontificare credendo di separare questa questione dall'egoismo che ormai respiriamo come l'aria e che di fatto difendiamo in ogni modo? Non sarebbe più ragionevole e salutare mettere le carte in tavola e dare un'immagine più credibile di noi stessi?
Gli intellettuali (o quelli che ancora attribuiscono a se stessi un mandato critico) dovrebbero almeno avere il compito di scollare dai nostri volti un po' delle maschere con cui li imbellettiamo, e di tentare di far esplodere alcune delle parole ninnananna che ci ripetiamo automaticamente: come «morale» o «giustizia» o «tolleranza». Qualcuno di noi desidera essere immorale, o ingiusto, o intollerante? Non scherziamo. In cuor suo, ciascuno si sente morale, giudizioso e tollerante, in una parola si sente «buono».
Ma buono e cattivo, nella loro pedagogica e rassicurante opposizione, sono ormai un latte-e-miele ideologico di cui diffidano perfino i bambini. Quanto sarebbe meno falsificante dire furbo e stupido e dare alla furbizia, a tutti i livelli, il primato di cui essa gode nella società contemporanea, il valore talora assoluto che essa si guadagna dovunque nel privato e nel pubblico. Bisognerà riparlarne di questa furbizia come virtù regina senza di cui sei un imbecille e non conti nulla, qualunque cosa tu faccia. Altro che questione morale!
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