L’adesione all’Interpol scatena la tensione tra Belgrado e Pristina

Serbia pronta a ostacolare in ogni modo l’entrata del Kosovo nell’organizzazione. La decisione a Dubai in novembre

BELGRADO Una serrata azione di lobby, da una parte, per ottenere un prestigioso riconoscimento "de facto" della propria indipendenza. Una durissima controffensiva in preparazione, dall’altra, per evitare un nuovo smacco internazionale. È ancora tensione sull’asse tra Serbia e Kosovo, scosso negli ultimi mesi ciclicamente da provocazioni, incidenti e fratture insanabili. Ad aggiungersi alla lista, ora, la sempre più intensa battaglia condotta dal Kosovo per essere ammesso nell’Interpol, la più grande organizzazione delle polizie mondiali, una sorta di “Onu delle forze dell’ordine”.

Aderirvi darà nuovi strumenti per «la sicurezza, la lotta al terrorismo e al crimine organizzato», ha assicurato il ministro degli Esteri kosovaro, Behgjet Pacolli. Ma anche prestigio e valore sul piano internazionale al Kosovo, auto-dichiaratosi indipendente dalla Serbia nel 2008. Kosovo che aveva tentato già nel 2010, nel 2015 e nel 2017 di farsi accettare nel club, senza riuscirvi. Questa volta le cose dovrebbero andare diversamente, con la prospettiva di ottenere i due terzi di voti favorevoli all’assemblea Interpol, il 19-21 novembre a Dubai. Per evitare sorprese, il governo kosovaro ha intessuto nei mesi scorsi fittissimi incontri bilaterali. E non sta badando a spese, dopo lo stanziamento la scorsa settimana di 1,2 milioni di euro per le azioni di “lobby” a favore dell’adesione.

Ma c’è un problema. È Belgrado, che ha avvisato che secondo una risoluzione Interpol dell’anno scorso, solo Stati membri dell’Onu o con almeno lo status di osservatori al Palazzo di vetro avrebbero diritto a presentare domanda d’adesione. Non è questo il caso di Pristina. Adesione che sarebbe anche contraria alla risoluzione Onu 1244.

E poi c’è la paura che il Kosovo, una volta nell’Interpol, inizi a dare la caccia a poliziotti e militari serbi che parteciparono alla guerra del 1999, facendo emettere mandati di cattura internazionali. Si parla di 5 mila persone a rischio, gente che «non saprà più se potrà uscire o meno dal nostro Paese», ha segnalato il presidente Vučić. «Noi non ci abbandoneremo alle vendette», ha assicurato Jetlir Zyberaj, capo-gabinetto di Pacolli. Non ci crede, la Serbia, dove il ministro degli Interni Nebojsa Stefanović ha parlato di imminente «catastrofe». Promettendo ieri una durissima controffensiva internazionale – con tutti i mezzi legali, politici e diplomatici - tra i Paesi membri dell’Interpol per impedire l’irreparabile. Obiettivo, convincere alcuni Stati, quelli «che credono al diritto internazionale», a fare marcia indietro prima che sia troppo tardi. Almeno per Belgrado. —


 

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