Le lapidi che raccontano il Novecento goriziano

Pagine di marmo riassumono la «travagliata e affascinante» storia della città Nella giornate in cui si omaggiano i caduti ecco un ideale viaggio nella memoria
Di Roberto Covaz

Pagine di marmo anziché di carta raccontano al cimitero centrale la storia del Novecento goriziano, «complessa e travagliata, ma affascinante al tempo stesso», parole del sindaco Romoli pronunciate davanti al Presidente Mattarella.

Tra le tappe più significative per chi cerca di comprendere o semplicemente per rendere omaggio ai caduti di una parte e dall’altra non si può che iniziare dal monumento ai partigiani caduti durante la Resistenza. Una sessantina i nomi e l’indicazione, sulla possente lastra di marmo scura, delle 103 salme ignote. Il monumento si trova vicino all’ingresso principale, sulla destra.

Come spesso si sostiene la lotta fratricida divampata a guerra finita, nel maggio del 1945, è la conseguenza dei problemi irrisolti al termine della Prima guerra mondiale. Ecco allora - a proposito di Grande guerra - discreto e bisognoso di manutenzione, all’angolo del Parco I di destra, la lapide che ricorda i 220 civili goriziani vittime delle battaglie dell’Isonzo.

Un compendio ideale del Novecento goriziano è scandito da alcune sepolture racchiuse nel Campo D di destra. A cominciare da Emilio Cravos. Convinto irredentista, fu fucilato dagli austriaci il 17 novembre 1915 per avere gridato in pubblico “Viva l’Italia”. Stessa sorte toccò a Giovanni Maniacco, fucilato anch’esso dagli austriaci, nel 1918. “Arruolato nell'esercito imperiale, verso la fine della Grande guerra organizzò una manifestazione antiaustriaca; la rivolta venne presto repressa, molti soldati furono arrestati ed egli, con altri 7 compagni, venne fucilato per tradimento”, recita la biografia ufficiale. Dalla parte opposta delle tomba di Cravos si trova la sepoltura di Lojze Bratuz e della moglie Ljubka Sorli. Trentacinquenne, l’organista e compositore sloveno morì per le conseguenze di un pestaggio da parte di un gruppo di fascisti. I quali, non contenti, gli fecero ingurgitare olio di motore assieme all’olio di ricino. La sua colpa? Essere sloveno. Nessuno pagò per quel massacro. Sempre in questa parte del camposanto permane la memoria di Armando e Italico Tomasetti, padre e figlio. La loro vicenda è emblematica. Il sergente maggiore della Julia Armando Tomasetti, 9° Reggimento, battaglione Vicenza, 29.a sezione salmerie, era nato a Gorizia il 14 ottobre 1910 da una famiglia di forti sentimenti patriottici. Il bisnonno Valentino aveva combattuto con Garibaldi, suo padre Italico ed i suoi zii Luigi ed Ettore, allo scoppio della Prima guerra mondiale si erano rifugiati in Italia e si erano arruolati volontari nell'esercito italiano. Ettore, il più giovane, cadde il 15 novembre 1917 sul Montello. Armando Tomasetti crebbe in questo clima familiare ed inoltre in un profondo amore per il corpo degli alpini. Non ha fatto ritorno dalla spedizione in Russia. Suo padre Italico è tra deportati in Jugoslavia del maggio 1945. Di Armando e Italico Tomasetti restano due foto incorniciate in un lapide metallica che riassume le loro storie. Sul lato estremo destro del cimitero ci sono due monumenti che ricordano i “vinti”. Dietro ai loculi si erge la cupa costruzione in cemento armato che ricorda il 1° battaglione volontari e l’8° reggimento bersaglieri “Mussolini”. Contiene le spoglie dei soldati della Repubblica sociale italiana che combatterono sul fronte orientale. Lì vicino si staglia l’alta lapide in pietra che ricorda i caduti dell’esercito tedesco e i resti di 184 salme recuperate nelle foibe carsiche. Si prosegue lungo lo stesso viale e, raggiunto quasi il confine del cimitero, prima degli antichi loculi, ecco la massa inquietante - tale evidentemente il messaggio che l’artista voleva veicolare - del monumento dedicato ai combattenti jugoslavi della guerra di liberazione nazionali caduti, morti, dispersi. «Grata la patria repubblica socialista federativa di Jugoslavia. 1979». Quasi al termine del viale centrale si trova invece il cenotafio dei caduti della Repubblica sociale italiana dal 1943 al 1945. Una targa ricorda che il restauro del tempio è stato eseguito nel 2015 dalla federazione nazionale arditi. Dedicato invece ai marò caduti per la patria nel 1943-45 la tomba in marmo che si trova sulla sinistra dell’ingresso. A poca distanza ecco la lapide che omaggia il sacrificio dell’esodo dei giuliano dalmati.

Molte ancora sono le pagine di pietra che tramandano la storia di Gorizia. Ma questo frettoloso viaggio nella memoria non condivisa non può che concludersi nella cripta a sinistra dell’ingresso. Ingentilita da un vaso di fiori freschi c’è la lapide con inciso il nome Bombi. Giorgio Bombi fu l’ultimo podestà di Görz e il primo sindaco di Gorizia. Nel passaggio sparì la “g” finale del cognome.

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