«Le onde ruppero gli oblò e picchiai la testa sul frigo»
«Quella sera il capo d'armi di turno e il comandante in seconda erano incaricati come sempre di ispezionare la nave e controllare che tutti gli oblò, le finestre e le altre strutture fossero chiuse, mentre io vedevo il comandante di seconda che passeggiava su e giù per la nave. Forse se avessero chiuso le porte stagne l'acqua sarebbe entrata sì, ma in quantità molto minore e probabilmente la nave sarebbe stata recuperabile. Due o tre elettricisti, non ricordo il numero esatto, misero a rischio la loro vita per andare a chiudere le porte stagne di persona e fermare l'afflusso d'acqua. Io ero al mio posto di lavoro, avevo ripreso da poco il terzo turno della giornata, che andava dalle 23 fino alle 2 di notte. Il mio ruolo era quello di capo partita nel reparto della cucina adibito ai piatti preparati con creazioni artistiche. Stavo preparando con i garzoni i piatti per portarli nella sala da pranzo quando è arrivato un colpo spaventoso. Ero in piedi e cadendo ho picchiato la testa contro il frigorifero, probabilmente anche piuttosto forte, ma la paura era talmente grande che non ci ho fatto caso più di tanto. C'erano tre oblò nella cucina, dai quali ero solito guardare fuori mentre lavoravo. S'infransero fragorosamente facendo entrare un'ondata d'acqua. I garzoni che erano lì con me mi hanno aiutato ad uscire dalla cucina e insieme al resto dell'equipaggio ci siamo diretti sul ponte dove abbiamo aspettato di salire a bordo delle scialuppe di salvataggio. Noi dell'equipaggio siamo stati tra i primi ad essere trasbordati sulla nave statunitense che ci è venuta in soccorso».
Così ha raccontato lo speronamento dell’Andrea Doria da parte dello Stockolm Carlo Pagan, triestino (non l’unico triestino quel giorno a bordo) e cuoco sulle navi fin da ragazzo. Lo ha fatto nove anni fa, nel 2006 cinquantenario del naufragio, affidando i suoi ricordi al Piccolo attraverso la penna di Claudia Burgarella. Aveva 83 anni ed era ospite della casa di riposo Mater Dei. Così ha proseguito: «Mentre ci allontanavamo a bordo delle scialuppe ci guardavamo attorno l'un l'altro per vedere se c'erano tutti e se eravamo tutti in salvo. Ricordo quegli sguardi, quell’apprensione. Anche i passeggeri si stavano mettendo in salvo. Il panico più grande si è scatenato dove è stata squarciata la nave, nel punto in cui c'erano le cabine delle suore che erano in terza classe e sono morte tutte. Quando siamo arrivati a New York ci hanno portato in un albergo e i braccianti di terra ci hanno controllati uno ad uno e ci hanno portato un cambio asciutto e un pasto caldo. Una volta a terra siamo riusciti a metterci in contatto con l’Italia tramite l'ambasciata governativa. Il viaggio Genova - New York - Genova durava quindici giorni e proprio allora doveva nascere il mio primogenito, Roberto. Non l'ho visto nascere, ma sentire mia moglie che mi annunciava la sua nascita al telefono è stata una grande emozione. Ricordo che mi hanno portato un telefono per chiamare a casa e si può immaginare lo spavento che aveva preso mia moglie sentendo del naufragio».
Anche la vita di Carlo Pagan ha poi subito una svolta: «Quando sono rientrato in Italia non mi sono più imbarcato. Ero giovane, avevo trent'anni, ho continuato a lavorare come cuoco, ma a terra. Per un periodo ho avuto anche problemi di nervi, una sorta di esaurimento nervoso, dovuto allo shock credo, per ciò che avevo visto e per il fatto che nessuno di noi ha ricevuto alcun tipo di assistenza psicologica o qualsiasi altra forma di sussidio una volta rientrati in Italia».
Tra i triestini imbarcati sull’Andrea Doria c’era anche un giovane, poi per decenni fattorino al Piccolo. Generazioni di giornalisti gli hanno invano chiesto di raccontare la sua esperienza. Ha sempre rifiutato, voluto rimuovere tutto, intimando di non pubblicare nemmeno il suo nome.
Le due navi erano entrate in rotta di collisione per un’errata lettura del radar dell’unità svedese e mancanza di contatti visivi, a causa della fitta nebbia, e radio. L'Andrea Doria tentò inutilmente una manovra d'emergenza virando a sinistra e fu speronata nella fiancata di dritta. Lo Stockholm penetrò ortogonalmente con la sua prua rinforzata, simile a quella dei rompighiaccio, nella fiancata dell'Andrea Doria, che nel frattempo continuava la sua corsa, all'altezza della plancia sfondando tre ponti (per un'altezza di dodici metri) e uccidendo, schiacciandoli, i quarantasei passeggeri alloggiati nelle cabine interessate dall'urto Anche cinque marittimi della Stockholm, alloggiati a prua, furono vittime della collisione insieme a numerosi feriti.
Con la prua affondata di 90 centimetri, la nave svedese si adoperò per soccorrere i naufraghi dell'Andrea Doria, imbarcando, provenienti da quest'ultima, 327 passeggeri e 245 membri dell'equipaggio. La nave fece poi rotta verso New York, ove arrivò il 27 luglio. Gli altri naufraghi vennero raccolti dall’Ile de France e da due navi mercantili: la Cape Ann e la Thomas.
«É stato detto che si trattò di un errore del comandante italiano Pietro Calamai - ha concluso dieci anni fa il suo racconto il cuoco triestino - ma Calamai non era colpevole di niente». (s.m.)
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