Le suggestioni dell’antichità svelate nei taccuini di Goethe

Il viaggio in Italia dell’autore tedesco al centro della Lezione di Storia alla Marittima  Nel racconto di Mascilli Migliorini la tappa magica a Roma e la scoperta del Vesuvio
«Gli italiani sono l’antico vivente». È la scoperta di Goethe, di cui si è parlato ieri alla Stazione marittima, durante la conferenza “La meraviglia. Goethe in Italia”, nell’ambito del ciclo di lezioni di storia organizzato da editori Laterza, con Erpac Fvg e la media partnership del Piccolo. Luigi Mascilli Migliorini, docente di Storia Docente storia moderna all’Università Orientale di Napoli, è stato presentato dal giornalista Alessandro Mezzena Lona durante un incontro che ha registrato, ancora una volta, il tutto esaurito.


Nel Settecento il Grand Tour era l’Erasmus dell’aristocrazia: un viaggio a tappe codificate nel vecchio continente, essenziale per il curriculum dei rampolli dell’Europa bene. Il viaggio in Italia di Goethe, pur richiamandosi a quel modello, se ne discosta: «Il suo non è un viaggio di formazione: lascia la Germania a 37 anni. È un poeta affermato e un uomo pacato, che ha compreso se stesso», ha detto Migliorini. Suoi compagni di cammino sono i pittori Tischbein e Kneipp, un quaderno dove lo stesso Goethe disegna a carboncino e, ultima ma non ultima, la bozza di una tragedia su Ifigenia che non riesce a concludere. Continua Migliorini: «Goethe è insoddisfatto della propria vita e di conseguenza del proprio stile. Non ne può più di essere uomo di corte e ha smesso di riconoscersi nella propria maniera di scrittura. Ha davanti una scelta: continuare a copiare se stesso oppure cercare di riscoprire un’originalità. Ecco perché parte, il 3 settembre 1786». Viaggerà per quasi due anni, di cui solo i primi 40 giorni sono dedicati a raggiungere Roma.


«Quella di Goethe è una vera e propria discesa della penisola, di fretta, per vedere la culla di quell’antichità classica che egli considera la sua patria ideale», ha detto il professore. Passato il valico del Brennero, il poeta si dirige verso Venezia. Lungo la strada tocca con mano l’arena di Verona, mentre non è entusiasta delle ville palladiane a Vicenza: «A Goethe interessa l’antico e non la sua imitazione», ha commentato Migliorini. Un paio di settimane nella Serenissima e poi via verso Bologna, dove è chiamato dai dipinti tardocinquecenteschi di Guido Reni e dei Carracci. A Firenze si ferma tre ore perché «non c’è niente da vedere», a sua detta. Arriva nella città eterna il primo novembre e si meraviglia perché i romani non festeggiano Ognissanti: «Ogni parrocchia ha il suo santo patrono ben più sentito, avrà modo di scoprire in seguito - continua il professore -. Goethe trova un’Italia plurale, i cui abitanti vivono in mezzo ai monumenti antichi con semplicità; usano le rovine come supporto per lavarci i panni o per edificarci la propria casa. Gli italiani sono l’antico vivente: il passato è parte integrante delle loro vite, mentre per Goethe rimane qualcosa di esterno a sé».


Come Winckelmann vent’anni prima, Goethe va dunque a Napoli. «È il paradiso abitato da diavoli. Lazzari e lazzaroni sono però anch’essi gli antichi moderni - continua Migliorini -. Goethe subisce l’effetto “all’inglese” di cui mi parlò Philippe Daverio, in una serata di giugno che trascorremmo nella sua villa in Maremma. Philippe mi parlò di un inglese che, venuto a trovarlo nella stessa magione, osservando i campi attorno esclamò: “siete fortunati voi italiani, perché mangiate i vostri morti!”».


A colpire Goethe è tuttavia soprattutto il Vesuvio, che visita più volte e riproduce nel suo taccuino: «Uno dei suoi carboncini più intensi. È la scoperta della natura nell’immediatezza della sua espressione. Il Goethe stufo di scrivere alla Goethe vede nell’eruzione del vulcano un’immagine di ciò che cerca: la capacità di buttare fuori di sé la lava. Il rapporto con l’antico si fa rapporto con l’arcaico, che pure questionava gli antichi. Il Romanticismo è alle porte». L’ultima tappa del viaggio è Messina, messa in ginocchio dal terremoto del 1783, che si ripeterà in maniera ancor più catastrofica nel 1908. «L’epifania della potenza distruttrice del vulcano è quasi un presagio, per Goethe. Riprende in mano i taccuini di quel viaggio quarant’anni dopo, all’età di ottant’anni e tutt’altro che placato: sta lavorando all’ultima parte del Faust».


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