Libertà di culto con la “patente” di Maria Teresa

«Questa magnifica città nuova che ora viene ammirata da tutti gli stranieri con i suoi borghi, assai frequentati, Giuseppino e Franceschino, un tempo per l’osservatore, non erano altro che paludi,...

«Questa magnifica città nuova che ora viene ammirata da tutti gli stranieri con i suoi borghi, assai frequentati, Giuseppino e Franceschino, un tempo per l’osservatore, non erano altro che paludi, saline e orti coltivati senza cura (…) allorché furono concesse ai Greci (…) privilegi in modo che potessero stabilirsi a Trieste».

Così scriveva Giovanni Vordoni nel 1827. I privilegi citati sono quelli che l’imperatore Carlo VI e poi sua figlia Maria Teresa avevano concesso a chiunque avesse dimostrato di possedere spiccato senso imprenditoriale, ma sicuramente i Greci furono tra i primi e più numerosi a cogliere l’accattivante offerta fin dalla dichiarazione del Porto Franco nel 1719. I due gruppi principali di Greci erano quelli che partecipavano alla Fiera di Senigallia, dove avevano saputo delle nuove opportunità create a Trieste, e quelli provenienti dalla Serenissima, ormai destinata al declino e refrattaria all’insediamento di un vescovo ortodosso nella città.

La visita dell’abate greco Damasceno Omero nel 1748 a Trieste fu decisiva. Dopo avere valutato le possibilità, egli si recò a Vienna con una lettera per richiedere all’imperatrice Maria Teresa il permesso di erigere un edificio di culto nella “Città Nuova”. Due anni dopo, con la Patente del 20 febbraio 1751, Maria Teresa accordò ai greci e agli “illirici” il diritto di fondare una comunità religiosa a Trieste e di edificarvi un tempio. La stessa imperatrice concesse un consistente prestito per la costruzione della chiesa dedicata alla Santissima Trinità e a san Spiridione Taumaturgo. (e.d.)

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