Lo sfratto di Ronchi a Oberdan

La targa che ricorda il suo arresto nel 1882 è introvabile. Un “bel” modo di celebrare l’Unità d’Italia

di Tiziana Carpinelli

RONCHI DEI LEGIONARI

Svèlati, Oberdan. Liberati di quelle persiane. Potesse farlo, ne siamo certi, il fantasma di Guglielmo Oberdan non tollererebbe un secondo di più la prigionia della minuscola corte che oggi custodisce, celandola alla vista, la targa affissa in memoria del suo arresto, avvenuto a Ronchi dei legionari. Terrorista per gli austriaci, patriota per gli italiani, non esiterebbe un istante e piuttosto che vederla lì, sbiadita, a confondersi con le macchie di umidità del muro, sfodererebbe la rivoltella, prenderebbe di mira la lapide di pietra e la farebbe saltare via, per lavare l’onta dell’oblìo.

Era stata posta, la targa “invisibile”, nel 1920, sulla facciata di una palazzina che nella metà dell’Ottocento figurava come locanda. Ora, di quella pensione che ospitò l’irredentista triestino, non v’è più traccia. Pure quella svanita nel tempo. E l’edificio, diventato in seguito un’abitazione privata, è stato completamente “rinchiuso” negli anni Settanta da un’immobile di quattro piani che ancora oggi svetta sul complesso. La maggior parte dei ronchesi ignora l’esistenza della targa. Non sa che per trovarla bisogna percorrere a piedi via D’Annunzio, fermandosi qualche metro prima dell’incrocio semaforico, e infilare il portico situato di fronte alla “Corradini”, sul lato opposto della strada. Poi, al primo varco libero, si deve svoltare a destra (ma attenzione perché è un’area privata, lo segnalano ben tre cartelli), per arrivare, solo dopo aver percorso un breve corridoio piastrellato, alla fatidica corte interna. Lì, ancora sulla destra, alzando gli occhi al primo piano, si intravede una targa. O meglio, quel che resta di una targa. La scritta non si legge più, erosa dagli agenti atmosferici. E perfino la pietra si confonde con la parete.

Eppure l’arresto di Oberdan è uno dei due episodi (l’altro è la partenza dei legionari per la dannunziana impresa di Fiume) che hanno fatto entrare Ronchi nella storia. Quella con la “s” maiuscola, s’intende. Ciononostante, anziché fregiarsi di una tale memoria, valorizzandola, indicandola come una tappa da visitare nei percorsi turistici, le amministrazioni comunali che si sono susseguite negli anni a Ronchi se la sono lasciata alle spalle, dimenticandola. A differenza di altri monumenti, ben custoditi e curati - come per esempio quello dedicato in piazza Oberdan ai deportati nei campi di concentramento, giusto a una manciata di metri dalla slavata targa, o appunto alla partenza dei legionari, sempre in via D’Annunzio -, la stele appare in stato di evidente abbandono. E risulta per giunta oscurata dai battenti di due persiane, spalancate da un residente. Che essendo a casa sua ha il diritto di aprire e chiudere i battenti come più gli aggrada.

Al di là degli aspetti paradossali della vicenda, non c’è dubbio che la cattura di Oberdan rappresenti un capitolo importante da annoverare tra gli accadimenti locali. È citato nel minuzioso libro “Ronchi dei Legionari. Storia e documenti” del compianto Silvio Domini, scrittore, violinista e autore del mitico “Vocabolario fraseologico del dialetto bisiàc”.

Era il 16 settembre del 1882 e l’irredentista triestino Guglielmo Oberdan (all’anagrafe Wilhelm Oberdank), che aveva già da tempo in mente di uccidere il baffuto imperatore Francesco Giuseppe, aveva trovato riparo alla locanda di Giovanni Battista Berini, oggi appunto un’abitazione privata nel centro della cittadina. Un delatore aveva spifferato il piano dell’attentato, costringendolo a nascondersi. Ma un messo comunale, che aveva notato il suo ingresso clandestino in territorio austriaco nei pressi di Versa, mise i gendarmi sulle tracce di Oberdan. Lo sorpresero al mattino nell’alloggio e lo catturarono. Non fu cosa semplice: il nostro vendette cara la pelle e nella collutazione che ne seguì il capoposto Virgilio Tommasini, che rimase ferito, esplose anche un colpo di pistola a bruciapelo.

Nella camera della locanda furono rinvenute due valigette con dentro due bombe all’Orsini (cioè con esplosivo, chiodi e pezzi di ferro), polvere da sparo e cartucce per rivoltella. Oberdan fu portato al palazzo del podestà e a tarda sera condotto a piedi alle carceri giudiziali di Monfalcone, per l’interrogatorio. Confessò le intenzioni di uccidere l’imperatore, atteso in visita a Trieste in occasione dei 500 anni di “dedizione” della città all’Austria. Tradotto alle carceri giudiziarie giuliane, la sentenza arrivò il 20 settembre. Tre mesi esatti dopo, alle 7, penzolava dalla forca. Il resto è storia. Storia sbiadita su una stele di marmo.

(1. Segue)

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo