L’omaggio a Leonor Fini, bella e dannata

TRIESTE L’artista divorata dal personaggio. L’”angelo nero” di un suo celebre travestimento che offusca l’originalità della pittura. Leonor Fini mondana e trasgressiva più conosciuta di Leonor Fini curiosa del surrealismo, corrente nella quale fu immersa, per sensibilità e amicizie, ma alla quale non volle mai “appartenere”. Aveva il gusto dell’onirico e del meraviglioso, come nelle sue maschere, ma rifiutava sistemi e imposizioni.


Ventisei anni dopo la prima e unica mostra mai dedicatale in Italia, alla Galleria d’arte moderna di Ferrara nel 1983, il museo Revoltella rende omaggio a Lolò e a una straordinaria carriera artistica, chiusa solo dalla morte della pittrice, ormai novantenne, avvenuta il 19 gennaio 1996 a Parigi, la capitale dove visse e fu protagonista della vita culturale e dei salotti per mezzo secolo.


Da sabato al 27 settembre, al quinto piano del Revoltella, duecentocinquanta opere, di cui un centinaio di dipinti e altrettanti disegni e stampe, provenienti soprattutto dall’estero, oltre a una cinquantina di raffinati volumi illustrati, racconteranno l’artista e i settant’anni di una lunghissima e fortunata carriera, contrassegnata da personalità e coerenza, da autonomia e sperimentazione, ma anche da incontri e occasioni, da uomini, amanti e interlocutori, importanti.


Lo testimonia, in un contributo del catalogo, Sibylle Pieyre de Mandiargues, figlia di André, tra i primi estimatori e compagni di Lolò a Parigi, dove la pittrice si stabilì dall’autunno 1931. Sul treno che la porta per la prima volta in Francia, incontra de Pisis, all’epoca appena trentenne, che fa molte feste a una giovane decisa a trasferirsi nel cuore delle arti, come aveva fatto lui stesso due anni addietro. Poche settimane dopo Leonor conosce, in una pasticceria, Henri Cartier-Bresson, che la presenta al ricchissimo amico André, poeta, con cui scatta un’immediata complicità, seguita dalla convivenza nell’appartamento al 37 del boulevard Saint-Germain, dove Henri abita al piano di sotto.


Nel 1932, tutti e tre fanno un viaggio fino a Trieste, a bordo della Buick decapottabile di André. «Bellissime fotografie di Henri – scrive Sibylle – conservano il ricordo di quell’estate e dei bagni nudi nel mare… Le gambe potenti di Leonor imprigionano lo stretto busto di André visto di spalle e seduto su una roccia nell’acqua trasparente. I loro due corpi intrecciati formano un solo essere geometrico e chiuso su se stesso. Si guardano e sembrano sospesi nella perfezione di quella contemplazione silenziosa…».


È stato un lavoro di ricerca quasi “poliziesco”, dice la direttrice del Revoltella, Maria Masau Dan. Perché le opere della Fini, che espose raramente in Italia, spesso osteggiata perché non inquadrabile, sono poco presenti nelle collezioni pubbliche o nascoste in preziose e discrete raccolte private. Ci sono voluti più di due anni perché questa mostra prendesse forma, negli obiettivi che il museo e l’assessorato alla Cultura del Comune hanno voluto darle: un contributo scientifico e critico sul ruolo di Leonor Fini nel Novecento, ma anche sulla profondità delle radici triestine e sulla capacità di trasferirle in una dimensione internazionale. Dal ’71, anno della morte della madre, la Fini non mise più piede a Trieste, ma il suo studio parigino, con pezzi liberty e arredi di vimini, mantenne sempre un’inconfondibile “allure” di casa. «Quando abbiamo discusso con Maria Masau Dan l’ipotesi di una mostra sulla Fini - dichiara l’assessore Massimo Greco - la prima idea fu quella di lavorare sulle origini culturali dell’artista, in particolare quelle triestina e milanese.


Poi la ricerca si è ampliata alla sua intera avventura personale e artistica, prospettando un viaggio internazionale nel ‘900, dal classicismo anni Venti alle sperimentazioni anni Settanta. Per il Revoltella è l’occasione per ribadire, con un’esposizione sicuramente ambiziosa, la triplice coordinata Trieste-Italia-Europa, di cui la Fini è autorevole testimone». In primo piano, dunque, l’arte dell’”italienne de Paris”, come s’intitolerà la mostra, che la bellezza e la teatralità di Leonor misero forse in secondo piano, ma che a scorrere i lavori esposti, i ritratti e i prestatori, rappresentano un tutt’uno, un amalgama affascinante. A segnare lo scorrere del tempo, centinaia di fotografie che ritraggono Leonor nell’obbiettivo di Man Ray, Cartier-Bresson, Cecil Beaton, Arturo Ghergo, André Ostier, contributo dell’Archivio Fini di Parigi diretto da Richard Overstreet, presente anche con dipinti e documenti.


Il percorso nella vita della Fini (nata a Buenos Aires nel 1907 e trasferitasi a Trieste un anno dopo, a casa dello zio Ernesto Braun, insieme alla madre Malvina, separata dal marito) inizia dagli anni Venti. La giovane artista è amica di Arturo Nathan, all’epoca in cura psicanalitica da Weiss, e di Carlo Sbisà, di cui saranno esposte alcune opere. È la stagione in cui frequenta Italo Svevo, Umberto Saba, Bobi Bazlen, rievocata in mostra da quadri inediti di collezionisti privati e disegni conservati dalle parenti triestine della pittrice, da dipinti giovanili che Lolò tenne per sé fino alla fine, e ancora dal ritratto che le dedicò Sbisà nel 1929 e da quelli che Leonor fece a Svevo e all’amica e rivale artistica Felicita Frai, donna altrettanto affascinante.


Una sezione racconta la collaborazione con Achille Funi, all’epoca del trasferimento della Fini a Milano, i reciproci ritratti (“Alla finestra”, dove Lolò è accanto a un’anonima modella e quel “Ritratto femminile”, donato al Revoltella nel ’54 dalla madre della pittrice, che solo di recente si è scoperto essere proprio il viso di Leonor) i lavori fatti insieme per la Triennale e alcuni inediti dipinti realizzati da Funi a Trieste.


Con il Revoltella hanno collaborato all’allestimento la Weinstein Gallery di San Francisco e la Cfm Gallery di New York, di proprietà di un celebre studioso di opere della Fini, Neil Zukerman. In America, dove Leonor espose subito anche grazie a Leo Castelli, la sua fortuna fu precoce e ancora oggi è ben salda, con quotazioni pari al triplo di quelle del mercato europeo. Tra le collaborazioni significative anche la Galerie Minsky di Parigi, che porterà a Trieste una serie di preziose testimonianze dei primi anni ’30, percorse da suggestioni picassiane, oltre al capolavoro della pittura surrealista, “L’ange de l’anatomie”, dipinto da Leonor nel 1954.


La galleria dei ritratti attraversa sia il periodo surrealista, caratterizzato dagli incontri con Max Ernst, Paul Eluard, Georges Bataille, Salvador Dalì e sua moglie Gala, sia la parentesi romana, dal ’44 al ’47, anni in cui Lolò intreccia amicizie con artisti come Fabrizio Clerici, con protagonisti della vita letteraria come Elsa Morante e Alberto Moravia o del cinema, come Anna Magnani. Il figlio di quest’ultima, Luca, ha accettato di prestare alla mostra il ritratto della madre, del ’52, mai prima esposto, insieme a una serie di bozzetti di costumi teatrali. Ci saranno anche due ritratti di de Mandiargues, uno di proprietà del Revoltella, che lo ricevette in dono dalla Fini negli anni ’50, e uno della Camera dei deputati.


Accanto, quelli degli anni Quaranta, bellissimi: la contessa Mitta Corti Colonna e sua sorella, la stilista Simonetta Colonna di Cesarò, Esmeralda Ruspoli, (prestato da Ottavio Sbragia, figlio suo e dell’attore Giancarlo), Margot Fonteyn, Stanislao Lepri, una conturbante Alida Valli, Valentina Cortese, che offre alla mostra triestina anche “L’amitié”. Degli stessi anni si potranno ammirare “La pastora delle sfingi” del Guggenheim di Venezia, “La bout du monde”, che, dopo la mostra di Ferrara, esce per la seconda volta dalla raccolta di una collezionista svizzera, “La grande racine” e “Streghe Amauri”.


Dopo la fine della guerra Leonor torna a Parigi e vi rimarrà per sempre. Lavora intensamente come pittrice, illustratrice, scenografa, costumista (anche col concittadino Giorgio Strehler), incontrando un consenso sempre più ampio da parte di critica e collezionisti. Al tempo stesso si muove leggera tra salotti e feste mascherate.


La sua pittura, ambigua e misteriosa, scava nelle paure umane, dà forma ai sogni, interiorizza e trasfigura. Una quarantina di dipinti di grande suggestione, fino agli anni Ottanta, rievoca questo lungo periodo: “Vesper express”, “Le gardienne de sources”, l’”Autoritratto col cappello rosso” del Revoltella, fino all’ultimo periodo, con il ritorno ai fantasmi del passato e accenti di forte erotismo, rappresentato da “Rasch rasch rasch, meine Puppen warten!” dalla Cfm Gallery di New York, “La luna” dalla raccolta di un noto collezionista triestino, “Les jumeaux ingrats” prestato dalla Weinstein di San Francisco.


Una sezione della mostra, infine, rende omaggio al talento della Fini come illustratrice, proponendo le tavole che creò per le opere degli amici poeti e letterati, quelle dedicate ai grandi scrittori che la ispiravano, Verlaine, Baudelaire, Balzac, Allan Poe, e una consistente testimonianza della produzione degli anni ’70, con una delle raccolte più spettacolari della sua grafica, declinata in disegni a matita, china, acquarello, acquaforte, gouache.


Scrive Jean-Claude Dedieu nel suo saggio per il catalogo: «Se la vita dei pittori è legata all’immagine, quella di Leonor Fini è iscritta fin dall’inizio all’interno di una teatralità che non è affatto quella, accessoria, di un gioco, ma una necessità vitale, in virtù della quale viene abolita la differenza fra la vita reale e la vita jouée».


E ricorda i primi travestimenti da ragazzo di Leonor bambina, per sfuggire ai rapitori che il padre argentino mandava a Trieste per riprendersi la figlia, i teatrini che improvvisava per i vicini dagli “sburti”, le finestre contro la bora, quando attendeva il ritorno dell’amatissima mamma, infine quel memorabile “angelo nero”, chioma e ali immense, con cui partecipò al ballo Bestegui a Palazzo Labia a Venezia, nel 1951. «Leonor – dice Dedieu – ama farsi osservare, ossia spiccare, farsi notare, sfuggire alla comunità, vale a dire ancora non crederci e farsene gioco».
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