L’ultima testimone dell’orrore della Shoah nella Comunità ebraica: «Non si ripeta più»

Diamantina Vivante Salonichio non dimentica «la grande paura»  di quegli anni. Fu deportata con la madre e le tre sorelle: solo lei tornò 

la storia

Lilli Goriup

Diamantina Vivante Salonichio è l’ultima testimone diretta della Shoah ancora in vita all’interno della Comunità ebraica di Trieste. È nata nel 1928 in una casa di via Riborgo, da una delle tante famiglie arrivate esuli in città a seguito della Ghezerà, l’aggressione antisemita generalizzata esplosa sull’isola di Corfù nel 1891.

La sua infanzia iniziò felicemente ma fu presto interrotta. Da bambina fu a sua volta perseguitata, prima dall’Italia fascista che nel 1938 affollò piazza Unità per plaudere alle leggi razziali antiebraiche, e poi dai nazisti nel frattempo subentrati a controllare la zona. A sedici anni e cioè nel 1944 fu deportata a Bergen Belsen assieme alla madre Sarina, alle tre sorelle Giulia, Enrichetta ed Ester. Il fratello Moise era stato portato ad Auschwitz nel ’43. Fu l’unica a tornare. Nei decenni successivi ha rilasciato diverse interviste, per non far passare sotto silenzio quanto le era accaduto: una scelta non scontata, dal momento che nel Dopoguerra i superstiti dei campi nazisti spesso non erano ascoltati né creduti, e si chiudevano di conseguenza nel silenzio.

All’età di 92 anni, oggi Diamantina non interviene più in pubblico, avendo deciso di ritirarsi a vita privata. Per la Giornata della Memoria ha tuttavia acconsentito a scambiare quattro chiacchiere. La persecuzione a dire il vero iniziò prima del ’38. A partire dal ’34 il regime di Benito Mussolini operò un sistematico abbattimento del Ghetto cittadino: la dimora di via Riborgo fu distrutta nel’ 36 e i Vivante dovettero trasferirsi in un appartamento di via di Cavana, condiviso con un’altra famiglia ebrea che a sua volta aveva subito lo sfratto. Qui nel 2018 sono state installate le prime pietre d’inciampo di Trieste: una di queste è dedicata proprio a Diamantina, che per la speciale occasione aveva fatto una delle sue ultime apparizioni in pubblico. La sua è una delle rarissime mattonelle che riporta la scritta «liberata». Tornando al ’44, come detto, mamma e figlie furono denunciate in quanto ebree dalla persona che le nascondeva, e per cui lavoravano come sarte. Nello stesso periodo fu deportata anche gran parte del resto della famiglia. Solo il padre si salvò.

Di quei tempi Diamantina ricorda «tanta paura» e che «gavemo pianto tanto». «Abbiamo pianto tanto», in dialetto triestino. Per rispettare il fatto che la signora ha appunto smesso di condividere i suoi ricordi più dolorosi, abbiamo chiesto di raccontare il resto della storia a suo figlio Alessandro Salonichio, presidente della Comunità ebraica cittadina: «Partirono con l’ultimo convoglio verso il campo di Ravensbrück, che però stava per essere liberato, e quindi finirono direttamente a Bergen Belsen, dove c’era anche Anna Frank. Non c’erano camere a gas ma si moriva di fame, tisi, botte e fucilazioni. La prima cosa che videro fu un cumulo di tronchi. Guardando meglio si accorsero che erano corpi. Quando Diamantina fu liberata dagli inglesi pesava una trentina di chili. Fu curata e peregrinò per l’Europa per mesi prima di tornare a Trieste. Ad aspettarla c’era suo padre. Le chiese che fine avesse fatto il resto della famiglia. Lei rispose che si erano persi per strada. Lui non ne parlò più. Lei sentì l’esigenza di cominciare a testimoniare quando siamo nati noi».

C’è tuttavia ancora qualcosa che Diamantina ha voglia di dire ai giovani: «De ’ndar contro quei che ne ga fato del mal. Ne ga fato de tuto. Che no i staghi far quel che ne xè succeso a noi». I giovani devono «andare contro coloro che ci hanno fatto del male. Ci hanno fatto di tutto. Non facciano quello che è stato fatto a noi». —

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