Ma Cadorna non merita la via che Trieste gli ha dedicato
Gli storici ritengono che la disfatta di Caporetto sia una diretta conseguenza della sua folle tattica militare, che lasciò sul Carso un alto numero di morti
TRIESTE. La città di Udine ha deciso in questi giorni (“Messaggero Veneto” del 4 giugno) di togliere il nome del generale Luigi Cadorna da una sua piazza: la decisione è definitiva, già approvata in giunta, ora aspetta soltanto i tempi tecnici dell’attuazione. Diffusa sui giornali italiani, la notizia ha raccolto un’ondata di e-mail, tutte di consenso: non c’è un solo lettore che non sia d’accordo nel ritenere che Cadorna non merita di essere presente nella toponomastica di qualche città.
E Trieste? A questo punto, si fa impellente la domanda: perché il nome di Cadorna resta presente nella toponomastica di Trieste? Anche Trieste è stata segnata a sangue dagli ordini e delle direttive che Cadorna impartiva finché fu al comando supremo del nostro esercito, nella prima guerra mondiale. E lo fu fino alla disfatta di Caporetto, che gli studiosi ritengono una conseguenza del fiaccamento e della sfiducia che la sua strategia imprimeva nei soldati. Sul Carso si combatterono numerose battaglie con la stessa tattica adottata sull’Altipiano: attacchi frontali, i nostri soldati a scagliarsi contro le postazioni nemiche a ranghi compatti, offrendo squadre plotoni e compagnie al tiro delle mitragliatrici, la nuova terribile arma che in questa guerra ebbe il suo battesimo e di questa guerra divenne “la regina”. Gli attacchi nelle battaglie del Carso, esattamente come in quelle sull’Altipiano, si concludevano con un numero dolorosamente alto di morti, e nessuna conquista territoriale.
L’appunto tremendo Cadorna rimase al comando supremo un tempo sorprendentemente lungo, se si guarda ai risultati delle sue operazioni. Ma il fatto è che lui non teneva in alcun conto il prezzo umano che le sue direttive costavano: c’è un appunto tremendo di un ufficiale ammesso alla riunione del generalissimo insieme con i più alti consiglieri dopo una sanguinosa sconfitta, che descrive il comandante supremo in preda a una “visibile lietezza”. So che gli storici, interpellati su questo punto, lo scarso o nessun valore attribuito dai nostri comandanti alla vita dei soldati, rispondono che quella era la scuola militare dell’Europa di quel periodo, non solo dell’Italia, e che nell’esercito austriaco o tedesco le cose non andavano molto meglio.
Emilio Lussu, che combatté sull’Altipiano e poi sulla Bainsizza, racconta di una battaglia in cui i nemici avanzavano al passo verso di noi a ranghi compatti, fucile a tracolla, urlando “Urrah!” e riempiendo l’aria dell’odore di cognac e la terra di cadaveri. I soldati, i nostri come i nemici, venivano ubriacati prima dell’attacco. Le zaffate di alcol provenienti dalle trincee nemiche erano il segnale che l’attacco era prossimo. Ma la coscienza che quella era una tattica suicida era già diffusa tra gli alti comandi dei nostri alleati: Cadorna lo sapeva, ma non ne teneva conto.
Morti inutili A più riprese i nostri alleati s’eran dichiarati pronti a inviarci rinforzi, a patto che prima sostituissimo il comandante supremo: non erano disposti a vedere morire i loro uomini come noi accettavamo di veder morire i nostri. Dopo Caporetto, la richiesta di mandar via Cadorna si fece più pressante da parte di tutti, e diventò irrinunciabile. Gli ordini di Cadorna, sull’Altipiano e sul Carso, equivalevano a condanne a morte. Non erano operazioni militari, erano esecuzioni. Non solo i grandi ordini di battaglia, rivolti ai reparti, ma anche i piccoli ordini di controllo del terreno, l’invio di pattuglie a tagliare i reticolati nemici: sono troppe le pattuglie partite, di cui non è tornato nessuno. Il generalissimo impartiva le direttive strategiche, che poi venivano tradotte in ordini per i reggimenti, le compagnie e via via fino alle squadre e alle pattuglie: prima che il grande reparto attaccasse, bisognava che le piccole pattuglie aprissero i varchi tra i reticolati.
Per fare questo, i soldati incaricati, spesso perché i superiori li disamavano e volevano punirli o non di rado toglierli di mezzo, avanzavano strisciando fin sotto i fili e li tagliavano con le pinze, poi sempre strisciando tornavano indietro. Il nemico era allertato per stroncare queste azioni non alla fine, non a metà, ma all’inizio: le pattuglie venivano falciate appena uscivano dalla trincea. Quando il primo soldato colpito cadeva indietro, il secondo soldato aveva l’ordine di scrollarsi di dosso il cadavere e offrirsi al sua volta come bersaglio.
Orrende carneficine. Ci sono state situazioni in cui il nemico stesso provava orrore per queste facili e orrende carneficine: Francesco Rosi, filmando un nostro attacco, mostra gli ufficiali austriaci dritti in piedi a seguire la scena col binocolo, che gridano: «Basta, valorosi soldati italiani, non fatevi uccidere così!». Cadorna spediva i nostri soldati al massacro e il nemico, stanco di massacrarli, provava pietà.
E Trieste si ostina a mantenere a questo comandante l’onore di dedicargli una strada? Cadorna era disamato dai soldati, e sotto di lui eran disamati o odiati gli ufficiali che adottavano la sua condotta. I nostri soldati consideravano i nostri ufficiali superiori più spietati dei nemici. E si difendevano da quelli come da questi. Non c’è nessuna possibilità di proporre o mantenere il nome del generale Cadorna a qualche via o piazza, se si son letti i diari, le cronache delle battaglie che lui dirigeva, le ricostruzioni storiche delle sue operazioni. Le intitolazioni a Cadorna sono possibili solo se chi le propone o le conserva “non sa” o “approva”.
Ma è impossibile che ci sia qualcuno, anche uno solo, tra gli amministratori di Trieste, che non conosca o approvi questa storia, che è il recente, grandioso-funereo, passato di Trieste.
La dedica ai grandi. Una città dedica le sue vie ai grandi che le danno onore e a cui vuol dare onore, ai grandi di cui si vanta, la cui vita, conclusasi ieri, illumina la vita di coloro che vivono oggi. Chi dà il nome a una strada o a una piazza ammonisce chi abita in quella strada o quella piazza a vivere come lui, si presenta come modello di vita, di professione, di arte, di scienza: in questo caso, per un generale, di tattica militare.
Ma se si usa il nome di Cadorna per battezzare una strada, non c’è augurio più lugubre per l’esercito italiano. Di Caporetto ce n’è stata una, basta e avanza. Aver dato il nome di Cadorna a una via di Trieste è stato, ieri, un errore.
Mantenerlo oggi diventa, ormai, una colpa.
(fercamon@alice.it)
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