Medico dei conflitti, da Haiti al Congo: «Terre dimenticate, aiuto le vittime»
Il chirurgo triestino Prelazzi a fine mese sarà in Sud Sudan: «Non ci rendiamo conto di quanto abbiamo da perdere»

«La vita è molto soggettiva. Ognuno vive i sui problemi più o meno gravi. Dalle delusioni amorose alle bollette da pagare a fine mese, fino al lavoro, sono tutti problemi rispettabili, ma quando entri in contatto con certe realtà, ti accorgi che alcuni di quelli che chiamavi problemi sono solo seccature. Se solo cambi prospettiva, ti accorgi che i problemi veri sono altri».
Il 25 agosto il chirurgo triestino Paolo Prelazzi, classe 1984, partirà per la sua nuova missione all’estero. Dopo essere stato con Medici senza Frontiere due volte ad Haiti e in Congo e una volta in Repubblica Centro Africana e in Sud Sudan, a fine mese tornerà in Sud Sudan, questa volta al seguito della Croce Rossa. A queste esperienze con Msf si aggiungono quelle in Uganda con l’ong Cuamm Medici con l’Africa e in Siria e Iraq con la staffetta sanitaria per il Rojava. La durata delle missioni varia tra le 6 e le 10 settimane. La prossima sarà di un mese e mezzo. In attesa di partire, il pensiero è però rivolto al nostro sistema sanitario.
Cosa può dire della sanità italiana?
«Non ce ne rendiamo conto, ma qui, anche se spesso ci lamentiamo, abbiamo ancora molto da perdere. Il blocco delle assunzioni, la burocrazia e tutto il resto allungano le liste d’attesa e i pazienti poi se la prendono con i medici, gli infermieri e gli oss perché sono i loro primi interlocutori, ma se stiamo male, un’ambulanza, in fin dei conti, arriva sempre e lo fa in tempi brevi».
Può spiegarsi meglio?
«Dove vado io, puoi aspettare un’ambulanza anche per 24 ore perché prima devono terminare gli scontri armati. In Congo, quando uno viene colpito da un proiettile c’è un triage “naturale”. Da noi, arriva solo chi è sufficientemente fortunato da sopravvivere. Penso, ad esempio, al caso di una bambina di nome Bonté. Era stata colpita da una fucilata alla coscia e ferita gravemente. È arrivata al pronto soccorso dopo tre giorni, quando stava già per perdere la gamba. Per fortuna lei ce l’ha fatta, ma era in condizioni davvero critiche. Qualche tempo dopo mi hanno mandate alcune sue foto in cui si vedeva che era tornata a camminare, seppure con l’aiuto di una stampella.
Ad Haiti, nella capitale Port-au-Prince, l’ospedale di Msf si trova in centro e potrebbe essere facilmente accessibile, ma intorno ci sono costantemente dei combattimenti tra gang rivali e, per quanto sia centrale, raggiungerlo può essere difficile: può volerci una giornata. Così, ferite che possono essere curate e guarite facilmente diventano letali a causa del tempo perso».
Quale missione è stata la peggiore?
«Ognuna ha avuto delle criticità».
Dal punto di vista emotivo?
«Haiti, perché il Sud Sudan è catastrofico, ma non ci sono i livelli di violenza che ci sono ad Haiti dove senti nel silenzio della notte i colpi di pistola e il giorno dopo vedi per strada scene raccapriccianti: cadaveri mangiati dai cani, corpi fatti a pezzi, anche di bambini. Quando in ospedale arriva un paziente ferito da operare, mettiamo in conto che potrebbe anche trattarsi del membro di una gang, ma Msf cura tutti senza distinzioni. Noi non siamo giudici: per Msf ogni paziente ha il diritto di essere curato e salvato. Chiunque può varcare la soglia dell’ospedale per ricevere assistenza purché non sia armato».
L’ultima missione è stata a Rutshuru, in Nord Kivu, in Congo. Di quell’esperienza cosa rimane?
«Da mesi si parla di accordi di pace tra Congo e Ruanda, ma dagli anni Novanta nella regione del Nord Kivu non c’è mai stata pace. È un territorio ricco di cobalto, coltan e anche petrolio. Lì la violenza sui civili è sistematica e impressionante e la violenza sessuale, sia sulle donne sia sugli uomini, è utilizzata come arma di guerra. I racconti sono drammatici solo a sentirli. È un posto pericoloso. Msf continua a essere presente, ma i rischi sono alti».
Del Sud Sudan invece...?
«Lì Msf è presente in diversi distretti e prende in carico soprattutto le persone traumatizzate dal conflitto, offre assistenza durante il parto e supporto in fase di campagne di vaccinazione e interventi nel corso di epidemie. Dalla malaria al colera c’è sempre da fare qualcosa. Ricordo un ospedale gestito dal Ministero della Salute locale pieno di pazienti, soprattutto bambini. C’era il picco della malaria. Erano così tanti che a malapena si riusciva a camminare e l’aria era irrespirabile anche se era ventilato. Laggiù la gente non trova mai pace, è costretta a fuggire costantemente, da un campo profughi all’altro».
Queste esperienze saranno utili quando deciderà di fermarsi e tornare in Europa?
«Può darsi che a medio termine torni per aggiornarmi e trovare una stabilità anche economica perché nell’umanitario non lavori certo per denaro. Spesso lavorare nel mondo umanitario non viene visto come un investimento in Europa, invece è un mondo che da tanto. L’idea di tornare mi piace, ma non so come, quando e a che condizioni lo farò. I colleghi che qui lavorano nel pubblico combattono con un sistema che li sta asfissiando, ma continuano a combattere e per questo hanno tutta la mia ammirazione e il mio rispetto. In alcuni casi, provo un senso di nostalgia per l’Italia, ma per me la dimensione umanitaria ha un valore personale importante. Quando sono sul campo riesco a vedere nell’immediato come il mio impegno migliori concretamente, seppur nel piccolo, la vita delle persone. Essere sul campo mi permette anche di osservare e vivere dentro gli eventi storici. Per assurdo, se dovesse succedere da noi quello che succede altrove, mi piace pensare che ci sarà qualcuno che verrà a fare qui quello che faccio io in missione».
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