Mio nonno Nino fatto prigioniero per distrazione

Catturato con 358mila austriaci in Russia vi rimase dieci anni riscoprendosi muratore
Nonno Nino, muratore e giardiniere
Nonno Nino, muratore e giardiniere

Era una di quelle mattinate russe quando il mondo sembra cristallizzato dal gelo e i treni scivolano quasi silenziosi perché la neve attutisce il rumore. Con Kirill eravamo saliti sulla versione ucraina del “Kharpatia Express”, partenza da Lviv e arrivo a Cernivzi, un percorso di media durata, il giusto per l’evocazione di un mito. Il mito delle fiabesche estreme province orientali dell’impero absburgico, “aldilà delle quali cominciava la notte”. Visto il caos che investe, l’immagine mantiene un suo significato e – forse – un cupo presagio.

La cosa migliore che offrono i treni russi è il vagone ristorante soprattutto se mantiene il vecchio stile. E questo lo manteneva. Tendine ricamate ai finestrini, centrini sotto le tazze da tè Lomonossov, tartine di caviale rosso, mezza caraffa di vodka. In un angolo un monumentale samovar manovrato da una “babushka” paffuta e svelta. Tutto l’occorrente per alimentare la memoria, il ricordo di un passato – per me molto remoto e fiabesco – che fa parte dell’album di famiglia, o perlomeno di una parte di essa. Nei pomeriggi estivi, sotto il fresco del pergolato (che le zie chiamavano “gloriette”), non avevo mai sentito parlare di Lviv o di Cernivzi. Ma di Leopoli e di Cernovitz sì. Da quelle parti gli zii paterni più anziani avevano conosciuto la guerra di trincea nell’unifome “feldgrau” del 97. k.u.k. Regiment del Freiherr von Waldstaetten, come tanti altri coetanei triestini “patochi”. In circostanze mai troppo approfondite ma probabilmente poco epiche riuscirono a salvarsi prima della micidiale offensiva russa del generale Brusilov che tra gli austriaci fece 358 mila prigionieri. Più uno: mio nonno materno Nino che nella confusione si distrasse come un epigono meno scaltro del soldato Scvejk e alla stazione merci di Aleksandrovka perse l’ultima tradotta per la salvezza. Prigioniero numero 358.001, guardato di brutto dalle guardie cosacche e destinato chissà dove.

Sarà per lo choc, sarà perché l’oblio è una difesa migliore della memoria, il soldato Nino, di professione muratore e giardiniere a tempo perso, entrò così nell’amnesia e il suo reticente racconto della decennale cattività in Russia sembra un sipario strappato, pieno di buchi. Dov’era finito per dieci anni, come se l’era cavata? Non poteva trovare un modo per tornare, visto che i rossi bolscevichi una volta sconfitti i bianchi zaristi, non volevano più occuparsi dei prigionieri austriaci che erano solo bocche da sfamare?

In mancanza di informazioni certe sotto la “gloriette” del nostro giardino presero piede due ipotesi: quella siberiana, molto avventurosa e quella pietroburghese, più modesta. Se la birra era abbondante e ben ghiacciata allora l’indicazione era “Siberia!”, il che corrispondeva in fondo al destino (documentato) di intere armate di sconfitti delle due guerre che in Russia si sovrapposero, quella contro gli imperi centrali e quella – più cruenta, più selvaggia – per il trionfo della Rivoluzione.

Pensai al nonno, quando mi trovai nella Repubblica di Burjatja, verso il capoluogo Ulan Ude. È la terra del buddismo e degli sciamani, i santoni che parlano con gli spiriti della natura. La strada era un rettifilo sterminato, come quelli percorsi negli anni Venti dai “bianchi” che dalla Transbaikalia tentavano di prendere alle spalle i rossi e riconquistare Mosca. Sebbene sui binari della Transiberiana corressero treni blindati di cannoni e mitragliatrici pesanti che sparavano per la maggior gloria degli zar – peraltro già fucilati a Ekaterinburg - un’offensiva di diecimila chilometri non era immaginabile. Il territorio di Irkutsk e della Burjatja diventò un immenso accampamento di reggimenti perduti, di signori della guerra a caccia di bottino che avevano “denti lunghi come baionette e neanche una parvenza di scrupolo”. Poiché in mezzo finì anche la “Ceska legija”, la Legione ceca composta da prigionieri ex a.u. questa versione della leggenda ritenne che il nonno, la cui famiglia proveniva dal Fiumano, possa essersi aggregato ad essa un po’ per la comune matrice slava e un po’ per disperazione.

Chissà. Comunque a Irkutsk e dintorni, compreso il museo della guerra, non v’è traccia della presenza sul campo di battaglia di formazioni composte da prigionieri di guerra. Ne consegue che sotto la “gloriette” passò la versione B, quella meno eroica ma suffragata da vaghe ammissioni dello stesso protagonista che ritornò dalla Russia nel 1925: aveva lasciato Francesco Giuseppe, aveva visto Lenin parlare davanti al palazzo dell’Ammiragliato a San Pietroburgo, si ritrovò con Mussolini e morì nel 1949 sotto il Governo anglo-americano. Pare che in Russia se la cavò trovando il vecchio mestiere, quello di muratore, proprio a San Pietroburgo che allora si chiamava Petrograd prima di diventare Leningrad. La città era molto danneggiata dalla guerra civile, erano necessari molti mattoni e molte mani che sapessero sistemarli. Ma quando andavo in questa città sul mare, che per biancore e prospettiva ricorda Trieste, tutto questo lo ignoravo. Magari sono passato cento volte sotto i volti di un palazzo rappezzato dalla cazzuola del nonno. Dalla Russia portò un violino e una balalaika che pizzicava traendone note nostalgiche. Come reduce dalla prigionia venne nominato guardiacaccia tra Cattinara e la Maddalena. Ma come quando perse il treno della salvezza in Galizia anche lì si distrasse e contro la legge che era tenuto a far rispettare sparò a una lepre, procurandosi la cena ma giocandosi la licenza. Sul letto di morte, sempre più raggrinzito e taciturno, non chiese una vodka ma un marsala. Anzi, “una” marsala.

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