Moni Ovadia: «Porterò una pietra a Sant’Anna per ricordare Strehler»
«C'è un'abitudine ebraica che vorrei onorare, portare una pietra sulla tomba di chi è scomparso. Rapprsenta una memoria permanente». Così Moni Ovadia spiega il gesto di omaggio a Giorgio Strehler, che intende effettuare nei prossimi giorni proprio mentre a Trieste è in corso la mostra «Strehler privato».
MILANO
«C'è un'abitudine ebraica che vorrei onorare - dice Moni Ovadia: - portare una pietra sulla tomba di chi è scomparso. Rappresenta una memoria permanente. Mi piacerebbe farlo, e magari lo faccio, proprio in questi giorni. Per Giorgio».
Una piccola pietra farà compagnia a Giorgio Strehler, al cimitero di Sant'Anna, presso la tomba della famiglia materna, i Lovrich. Sono passati dieci anni da quando all'improvviso, la notte di Natale, Strehler è scomparso.
«Un grande poeta italiano, morto anche lui in quel periodo, Giovanni Raboni, mi ricordava spesso che apparteniamo a una comunità di vivi e di morti - prosegue Ovadia - perché coloro che non ci sono più, fanno ugualmente parte della nostra vita, delle nostre pulsazioni. Se non li avessimo incontrati saremmo uomini e donne diversi».
In partenza da Milano per Cividale, dove riprenderà il suo posto al timone dell'edizione 2008 del MittelFest, Moni Ovadia promette una deviazione verso Trieste. «Giorgio merita davvero quello che state facendo per lui in questi giorni. Il suo nome dovrebbe risuonare in tutte le occasioni possibili, perché è stato un uomo unico. Non solo l'inventore del teatro di regia in Italia, ma colui che assieme a Dario Fo e a Eduardo De Filippo ha fatto conoscere il teatro italiano nel mondo».
C'è stato un momento breve, ma intenso, di conoscenza tra voi due.
«L'ho conosciuto personalmente solo negli ultimi anni della sua vita. Ma è stato un incontro di quelli che si portano dentro per sempre. E quando è mancato, confesso il mio egoismo, mi sono sentito orfano e mi sono detto: quanto mi sarebbe piaciuto continuare a stare presso a lui, continuare a sentirlo, per quel suo modo torrentizio di parlare, di raccontare aneddoti, di passare dal titanismo all'autodemolizione...».
Era nato sotto il segno del Leone.
«Era un'anima calda. E quel suo calore oggi manca. Io non posso che parlare bene del Piccolo Teatro di Milano: Sergio Escobar, che ne è adesso il direttore, e Luca Ronconi hanno costanti attenzioni per me e per i miei lavori, mi invitano, mi ospitano nei loro cartelloni. A Milano sarei un estraneo se non fosse per il Piccolo Teatro. Ma devo riconoscere che mancando Strehler, mancano quel calore e quell'energia che l'uomo sapeva trasmettere, quel titanismo che rendeva incandescente la sala. Dico energia e mi sembra di usare un termine new age. Ma quando si tratta di certi uomini, il termine diventa vero. Senti che l'aria vibra in un certo modo, diverso. Me la ricordo bene, la sensazione, quando arrivavo a via Rovello, che lui ci fosse o no...».
Qual è il ricordo più immediato?
«La volta in cui mi fece il più grande dono, che mai mi sarei aspettato da lui. Pensavo si interessasse al mio lavoro solo per cortesia ed educazione, pensavo di essere troppo lontano dal teatro di prosa, dal suo modo di vedere la scena e i testi. E invece un pomeriggio, quando passai a salutarlo, e lui provava in palcoscenico "Elvira, o la passione teatrale" ed era stanco, sudato, sfinito da ore e ore di prove, mi disse: fermati, voglio farti vedere una cosa. E riprese per me, solo per me e per Daniele Savi che mi accompagnava, quello spettacolo, tre quarti d'ora dedicati solo a noi due. È importate che tu lo veda, diceva, e capivo che mi voleva dire che anch'io ero importante per lui».
Una cosa è certa: non aveva pregiudizi.
«Chi fa teatro di prosa spesso è schiavo di un pregiudizio. Pensa che il teatro sia soltanto uno. Io credo invece nei cento fiori del presidente Mao: il teatro di prosa non è che uno delle cento possibili forme del teatro. E anche Strehler la pensava così. Fiutava il teatro ovunque esso fosse, anche nelle proposte di uno stramboide come me».
Fu per questo che ti scelse per la sua «Madre Coraggio di Sarajevo».
«Accanto a lui avevo già lavorato, proprio a Trieste, nel 1995, quando in Risiera per un'iniziativa che si intitolava "La memoria dell'offesa", cantai la preghiera dei defunti. E forse in quella occasione che lui intuì in me certe radici mitteleuropee, che lo spinsero poi a parlarmi spesso in dialetto triestino. Avevo ovviamente notizia del suo carattere di regista, delle sue urla omeriche, della sua tempestosità, ma non le avevo ancora sperimentate. Per quell'insolito spettacolo, che lui volle intitolare "Madre Coraggio di Sarajevo" e che proiettava il dramma di Bertolt Brecht sullo sfondo dei Balcani in guerra, mi aveva chiesto di interpretare il cuoco. Lo feci volentieri, ma su una cosa fui intransigente. Gli spiegai che non avrei mai e poi mai cantato Brecht in italiano, che mi pareva semplicemente ridicolo. "Ma te son proprio mona - fu la sua replica - no te capisi che la gente devi capir". Tirai fuori tutto il dialetto triestino di cui ero capace e ribattei: "Disi quel che vol, Giorgio, ma mi no canto Brecht in italian, me vien de rider". Continuò a parlarmi nella vostra lingua e a cercare di convincermi. Ma alla fine fu lui a cedere: "Bon, canta come che te vol, e vaffan...”».
Tempestoso, appunto.
«Questo era Strehler. Parlava e nel momento stesso produceva teatro. Aveva la capacità di passare da iperboli di raffinatezza culturale a trivialità da angiporto. Con me ha sempre mostrato un affetto e una generosità straordinari. Che ho cercato, per quel che potevo di ricambiare».
Nel momento più tormentoso dei suoi rapporti con l'amministrazione comunale milanese, per esempio, quando per protesta rassegnò le dimissioni dal Piccolo Teatro, e quelli non videro l'ora di accettarle.
«Presi le sue difese contro il sindaco di allora, Marco Formentini. Ogni sera al termine dello spettacolo "Ballata di fine millennio" mi rivolgevo al pubblico con un discorso. A un certo punto scendemmo anche in piazza. Ma che amarezza nel contarci. Dove sono tutti gli altri, mi chiedevo, dove sono gli altri teatranti italiani? Se ne stavano silenziosi, tacitamente rimproverandogli di essere un accentratore».
Un papa laico.
«Così capii quanta miopia c'era nel nostro teatro. Quanto era poco lungimirante. Se un modesto sindaco poteva umiliare uno dei più famosi uomini di teatro al mondo, figuratevi cosa avrebbe fatto di noialtri. Strehler in quel momento rappresentava tutti noi, al livello più alto. In risposta, Giorgio mi scrisse una lettera molto bella che conservo gelosamente. Righe commoventi, piene di pathos, com'era nel suo carattere. Anche per questo, per ricambiare quel suo gesto, vorrei venire a Trieste, e appoggiare quella pietra a Sant'Anna».
Roberto Canziani
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