Nella geografia dei film italiani Trieste è il luogo delle frontiere dove la vita porta verso l’ignoto

Da “La sconosciuta” di Tornatore a “Diverso da chi”, il libro di Gianni Canova e Luisella Farinotti spiega perché la città sugli schermi è simbolo del Nord Est

di Paolo Lughi

La Trieste di celluloide ha una storia lunga (quasi un secolo da “Lo squartatore della canzonettista Lucienne Fabry”, 1908) e piuttosto gloriosa (“Senilità” di Bolognini di 50 anni fa, 1961, ma anche “Corriere diplomatico”, “Il Padrino – Parte II”, “Ernesto”…). Negli anni Duemila il legame della nostra città con il cinema si è rinforzato con le riprese di pellicole importanti come “La sconosciuta” di Tornatore (film candidato italiano all’Oscar) o “Le stade de Wimbledon” del francese Amalric, ma anche di commedie di un certo rilievo (“Diverso da chi?”, “Amore, bugie e calcetto”, “Il giorno+bello”), che hanno portato sulle Rive di Trieste star nazionali come Argentero, Battiston, Bisio, Gerini, Pandolfi, Violante Placido. E pure la tv ha trasmesso di recente immagini e storie di Trieste in tutti i salotti italiani con la serie del Commissario Laurenti e la fiction su Tiberio Mitri.

Ora questo nuovo ruolo - diverso da quello precedente, come vedremo - nell’immaginario nazionale che la città si è conquistata viene “certificato” da un importante saggio fresco di stampa, “Atlante del cinema italiano. Corpi, paesaggi, figure del contemporaneo” (Garzanti, pag. 394), a cura di Gianni Canova e Luisella Farinotti. Si tratta di un’articolata ricognizione su 400 titoli nazionali dell’ultimo decennio che tratteggia una completa “geografia” del cinema italiano contemporaneo, «uno studio di spazi, luoghi e ambienti rappresentati e messi in scena nei film».

Una ricerca approfondita che giunge oggi quanto mai opportuna in un momento di gran spolvero per la produzione nazionale (ormai alla quota record del 50 per cento degli incassi), e di grande curiosità del pubblico per film sempre più ambientati in tutti gli angoli dello stivale (grazie anche all’impulso delle Film Commission regionali, sviluppatesi negli anni Duemila). Simbolo eclatante di questa tendenza policentrica è la sorpresa “Benvenuti al Sud”, pellicola bipolare Nord-Sud ma anche commedia “di viaggio” che smitizza i diversi luoghi comuni d’Italia, valorizzandone al contempo proprio «corpi, paesaggi e figure». Pure i film comici di sicuro successo fuggono ormai dalle ambientazioni più consuete, tanto è vero che Ficarra e Picone sono diventati guide turistiche a Torino per il loro hit di Natale “Anche se è amore non si vede”.

Ma questo ”Atlante del cinema italiano” vuole andare oltre la superficie degli stereotipi, chiedendosi quale sia l’immaginario generato dalle varie zone d’Italia attraverso il nostro cinema, e quali nuove identità esse raccontino in questo principio di secolo. I vari saggi affrontano così, oltre ai nuovi scenari dell’eterna Roma, soprattutto le città e le regioni che costituiscono i nuovi set e i nuovi centri generatori di storie: ad esempio la Bologna studentesca e la Genova dei traffici, il Piemonte e la Toscana, il Sud “coast to coast” dalla Puglia alla Basilicata alla Sicilia, fino al fiammeggiante «contemporaneo partenopeo» (“Gomorra”, ma non solo).

Trieste occupa un posto di rilievo all’interno dei numerosi riferimenti che l’”Atlante” fa guardando al Nord-Est, realtà socioantropologica entrata di prepotenza da una ventina d’anni nella storia e cultura d’Italia. Il Nord-Est (insieme alle coste liguri o meridionali, pensiamo a “Terraferma”) evidenzia nei film «il carattere problematico del confine, del margine, con la posta in gioco identitaria che accompagna ogni sconfinamento». Trieste, il Friuli e il Veneto rappresentano così sullo schermo «l’unico confine nazionale di terra in cui la frontiera conserva la valenza destabilizzante di un’apertura sull’ignoto», che dischiude brecce da cui penetra “l’Altro”, con la presenza costante di personaggi stranieri e immigrati.

Si pensa innanzitutto alla “sconosciuta” dell’omonimo film “triestino” di Tornatore, e per il Veneto al meccanico tunisino e alla tabaccaia rumena di “La giusta distanza” di Mazzacurati, al cameriere islandese (Bruno Ganz) di “Pane e tulipani”, all’operaia tessile cinese di “Io sono Li” di Segre. Anche in Friuli, esposto a flussi migratori e correnti xenofobe, la questione dei confini appare nei film come una problematica più che mai viva: pensiamo agli africani nel cantiere di “Come Dio comanda” di Salvatores, alla Aviano di “Occidente” del compianto Corso Salani, al timore di una mano assassina “straniera” che incombe sul mistero de “La ragazza del lago” di Molaioli. Mentre il triestino Giraldi nel suo “Voci” (ambientato però a Genova) introduce un enigmatico personaggio serbo interpretato da Miki Manojlovic. L’acceso scontro politico sul tema dell’immigrazione è trattato invece in commedia da Umberto Carteni in “Diverso da chi?”, dove Trieste diventa (attenzione!) una generica città del Nord-Est, una “controfigura” di Padova dove realmente un muro divide gli autoctoni dagli extracomunitari.

Gli autori dell’”Atlante” riconoscono al padovano Mazzacurati una “lucida preveggenza” nell’”inventare” narrativamente questo Nord-Est in crisi d’identità. Non solo col magnifico “La lingua del santo” (2000) ma già con “Il toro” (1994), «odissea al contrario che lascia quasi subito il Nord-Est per l’Est europeo», e poi con “Vesna va veloce” (1996), dove proprio la nostra città è la prima tappa del viaggio in Italia di una ragazza dell’Est in cerca di fortuna.

Ma la differenza importante fra quel film e invece questi più recenti di ambientazione giuliana, è che oggi Trieste è diventata un set suggestivo, moderno e problematico quanto anonimo: un luogo fotogenico e rappresentativo come un altro nel Nord-Est, che si limita a suggerire la propria “identità di frontiera” senza svelarsi. Anche nella “Sconosciuta”, infatti, Trieste è solo la controfigura dell’immaginaria città di Velarchi, sorta di summa idealizzata della città nordestina come l’hanno raccontata giornalismo, saggi, romanzi e altri film negli ultimi anni. In questi film Trieste quindi non è più se stessa, ma è parte intercambiabile di un Nord-Est inteso come corpo unico e monolitico, con determinati caratteri e problemi.

Si tratta di un processo di generificazione mediatica dell’identità cittadina su cui vale la pena riflettere. L’immagine di Trieste è diventata un fenomeno di marketing che certo la rinnova, la inserisce in un sistema più complesso e la sta slegando dagli stereotipi culturali della nostalgia e della letterarietà. Ma la sta anche facendo diventare a sua volta “sconosciuta”, cancellando il suo nome e certe sue importanti connotazioni dal riflesso che essa dà all’esterno. Forse è un segno inevitabile di modernità e globalizzazione, ma intanto per “Le parole di mio padre” (2001), ovvero l’ultimo film italiano a oggi tratto da “La coscienza di Zeno”, la regista Francesca Comencini ha scelto Roma come ambientazione.

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