«Noi ragazze del Petrarca in gara per i voti migliori»

I ricordi di Cristina Benussi, diplomata nel ’68: «Nella classe parallela c’erano Volli e Lughi. E la scuola ci dava tutti gli strumenti per discutere dell’attualità»
Di Piero Rauber
sterle trieste studenti del liceo petrarca all'uscita pregasi di conservare in archivio questa foto alla c a dott livio missio
sterle trieste studenti del liceo petrarca all'uscita pregasi di conservare in archivio questa foto alla c a dott livio missio

La competizione tutta in rosa, tra piccole donne che crescevano, virata sotto esame di maturità in solidarietà femminile. Con buona pace di quella compagna che era solita svenire in classe, specie in concomitanza con un’interrogazione. E meno male che c’era pure quel professore, senza moglie né figli, che si prendeva a cuore i piccoli grandi problemi delle sue allieve, come un padre di famiglia... Era il ’68 quando Cristina Benussi uscì dal liceo Petrarca col diploma. Da allora a oggi - un oggi che la vede preside della facoltà di Lettere e che celebra il centenario dello stesso Petrarca - sono passati 42 anni. Dalla sua memoria però non si sono smarrite le foto, non sono andati persi i video che, a quel tempo, mica si potevano affidare a un telefonino da tasca.

Professoressa Benussi, qual è stato il “suo” Petrarca?

Un momento importante della mia vita, durato cinque anni, dal ’63 al ’68, in cui mi sono data molto da fare ma che ricordo con gioia. Stavo in una classe interamente femminile, sezione A, che al suo interno era molto competitiva. Si lavorava parecchio. Sono stati anni duri, dal punto di vista dello studio. Appartenevo d’altronde a una scuola che obbligava i suoi studenti a diventare adulti. Ma ora ripenso soprattutto con grande simpatia e riconoscenza alle amiche di allora, amiche che mi hanno aiutato a crescere».

Ce ne sono, di compagne, o addirittura di vicine di banco, che poi si son fatte un nome pubblico, come lei?

Mi pare di no. Tutte si sono distinte però nei rispettivi campi nei quali hanno intrapreso la loro vita lavorativa. Non sono diventate famose, ma che significa, in fondo. Alcune di loro penso siano diventate ben migliori di chi, magari, è solo diventato famoso».

Nomi e cognomi?

Penso a Fiora Bartoli, che è diventata medico, a Gabriella Cucchini, che ha lavorato a lungo all’assessorato alla Cultura del Comune. Eppoi c’era Giuliana Calligaris, la bellissima della classe. Tutte eravamo attente a come vestiva e a come si comportava. E non posso dimenticarmi di Cristina Polonio, che mi aveva introdotto nel mondo dei cavalli, sebbene poi io non fossi mai diventata un’eccellente cavallerizza. Ogni tanto ci vediamo ancora.

C’era qualcuna che veniva portata in palmo dai professori e poi non s’è realizzata come si pensava? O chi invece pareva un po’ faticare e poi ha sfondato?

No... no... C’era, però, una compagna un po’ particolare, della quale ometto il nome. Sembrava bravissima. Bravissima di recitare scene di svenimento. Nessuna di noi, in classe, è riuscita mai a capire se fosse vero o meno. Tant’è, se l’è sempre cavata bene, ogni anno.

Si è diplomata nel ’68. A proposito. Che ricordi ha, mentre lei studiava al Petrarca, di ciò che succedeva nel mondo, e, perché no, anche a Trieste?

Ne ho parecchi, di ricordi. Il tipo di liceo ci portava ad interessarci dell’attualità, e ad approfondirla. Nella sezione parallela c’erano, per esempio, Ugo Volli e Giulio Lughi. Tra noi studenti s’instauravano bellissimi momenti di confronto. Non erano ancora gli anni in cui ci si riuniva in grandi assemblee, ma in gruppetti spontanei. E la scuola, il Petrarca, ci dava tutti gli strumenti per parlare, con consapevolezza, di quest’attualità.

Qualche aneddoto?

Più che singoli episodi, la quotidianità. Il trovarsi fuori di scuola, l’andare ogni tanto a teatro, al loggione del Verdi. Eppoi l’anno della maturità, quando è emersa tra noi una solidarietà che prima era mancata. Dopotutto, nel ’63 eravamo partite in trenta, siamo rimaste in nove. Ci facevamo il tifo a vicenda, durante le interrogazioni, e ci aiutavamo nel fare i compiti.

E i professori?

Oddio... Ce n’era uno, al ginnasio, di greco e latino, e anche qui non faccio alcun nome, davvero implacabile. Ancora oggi viene a disturbare i miei sogni. In cima metto Anita Burian Pesante, che ha di certo contribuito a orientare i miei interessi umanistici. Insegnava storia e filosofia. Mi ci sono avvicinata per la grande partecipazione e passione che ci metteva. Ogni tanto vado addirittura a rileggermi i suoi appunti. Finisco con Luciano Sarti, l’insegnante di italiano e latino. Che tenero. Non essendo sposato considerava la scuola la sua famiglia. Era un confidente, in anni in cui i giovani non avevano generalmente grandi dialoghi in famiglia e non esistevano nemmeno particolari strutture sociali di supporto che lo facessero. Era pronto, se serviva, persino a riprendere i colleghi più severi: “No steme spaventar le putele...”».

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