Omicidio della barista, condanna confermata

LATISANA. Non chiedeva sconti di pena, Gianni Lirussi, 65 anni, di Pozzuolo, ma semplicemente giustizia. Lui, che dell’omicidio della convivente Eufemia Rossi, la barista 56enne di Latisana trovata morta con il cranio sfondato il 2 aprile 2011, si era dichiarato il responsabile e che per questo si era detto pentito e pronto a pagare, voleva soltanto essere creduto: tutta colpa di un raptus di rabbia, aveva confessato, al colmo di una lite nel corso della quale la donna lo avrebbe paragonato al padre fannullone. Condannato dal gup del tribunale di Udine a 17 anni di reclusione (16 per l’omicidio e 1 per l’occultamento del cadavere), aveva impugnato il verdetto, sperando di essere riabilitato almeno sul piano della credibilità: le cose erano andate come lui le aveva ricostruite e non come il giudice le aveva poi interpretate nelle motivazioni della sentenza.
La Corte d’assise d’appello di Trieste non pare avergli dato retta. Dopo una Camera di consiglio durata appena un’ora e mezza, i giudici (presidente Piervalerio Reinotti, a latere Fabrizio Rigo) hanno emesso una sentenza che ricalca in toto quella di primo grado. Proprio come aveva concluso anche il procuratore generale Carlo Maria Zampi. E a differenza di quanto aveva sollecitato, invece, il difensore, avvocato Daniela Lizzi, che, proprio nel nome di una condanna «secondo giustizia», aveva puntato in una diminuzione della pena, in grado di cancellare le «insinuazioni della malvagità e della premeditazione» addotte dal gup nelle motivazioni e di valorizzare piuttosto i riscontri che della deposizione resa da Lirussi aveva dato anche il consulente di parte. Ed è stato proprio attorno alla coerenza della versione fornita dall’ex assicuratore di Pozzuolo che il legale aveva articolato la propria arringa. L’assassino di Eufemia, aveva detto rivolgendosi ai magistrati e ai giudici popolari, non è quella specie di “mostro” descritto dal gup. Non, insomma, una persona capace di «pianificare, dopo il delitto, un rudimentale progetto per guadagnarsi l’impunità», bensì un uomo che, pur di togliersi quel peso di dosso, non aveva esitato a lasciarsi dietro tracce evidenti in grado di condurre gli inquirenti fino a lui. Un uomo, come avevano provato test e perizie, con difficoltà a dominare gli impulsi in situazioni di stress e che - altro aspetto di cui la sentenza non ha tenuto conto - agì in un momento di temporanea riduzione della capacità di intendere e di volere.
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