Osiamo udire

Kasper e l'ebraismo: quale dialogo. Una storia di sofferti passi avanti. La sfida più coraggiosa: ascoltare
Marc Chagall, Giobbe (1975, Collezione privata)
Marc Chagall, Giobbe (1975, Collezione privata)
Il Cardinale Walter Kasper è tra i massimi protagonisti del dialogo ebraico-cristiano. Kasper riconosce la svolta storica che ha portato i cristiani a dialogare con gli ebrei e l’ebraismo su basi nuove. Un evento di cruciale portata storica, teologica ed ecclesiologica, che interessa tutte le Chiese cristiane. Tale svolta, che vede la Chiesa cattolica impegnata in prima linea, è piuttosto recente. La Shoah da una parte, e la creazione dello Stato di Israele dall’altra, sono stati due eventi epocali del xx secolo: per il popolo ebraico, ma non solo. La Shoah ha scosso le coscienze di tanti credenti. Essa li ha indotti a riesaminare le dottrine e gli insegnamenti ricevuti; a denunciare i radicati pregiudizi e gli antichi stereotipi sugli ebrei e sulla religione ebraica, il secolare retaggio di un’istruzione cristiana. La creazione dello Stato di Israele ha aperto gli occhi a quei cristiani, pochi in verità, che videro e celebrarono in tale rinascita la testimonianza della perenne vitalità del popolo ebraico. Il teologo Tommaso Federici fu tra quei pochi. Il suo libro Israele vivo fu uno shock per i tanti cristiani cresciuti con la convinzione che Israele avesse esaurito la sua funzione nella storia della salvezza con la distruzione del Tempio avvenuta nell’anno 70 (e.v.). Il libro venne pubblicato nel 1962, mentre si apriva la stagione del Concilio Vaticano II. Tre anni dopo venne promulgata la Dichiarazione conciliare Nostra Aetate. La parte dedicata alla religione ebraica (paragrafo 4) di questo documento, che si perde per la sua brevità nel vasto mare degli atti prodotti dal Concilio, ebbe una portata ‘rivoluzionaria’. Con la Nostra Aetate, il Concilio Vaticano II apriva un nuovo capitolo nel rapporto della Chiesa cattolica con Israele. Di questo straordinario documento il Cardinale Kasper ha rilevato una serie di punti (Chiesa cattolica. Essenza-Realtà-Missione, 2012, pp. 472-480). Il primo è il patrimonio che la Chiesa ha in comune con il popolo ebraico. La Chiesa oggi lo riconosce. Questo è un debito di gratitudine che la Chiesa ha nei confronti di Israele. Il suo riconoscimento è destinato a mutare il secolare disprezzo verso gli ebrei e l’ebraismo in un rapporto di stima. Il timone del cambiamento è stato messo nelle mani dell’apostolo Paolo, per il quale gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono sempre carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimenti (cfr. Rom 11,28). Il secondo punto evidenziato da Kasper è la fedeltà di Dio al suo popolo. Israele non è stato rigettato da Dio e tantomeno rimpiazzato dalla Chiesa. La vecchia teologia della sostituzione, che presentava la Chiesa come il vero Israele (verus Israel) è stata screditata e respinta. Tutto questo apre inediti scenari. Proprio Kasper si è applicato alle complesse e delicate implicazioni di un simile ripensamento teologico. Ed è categorico quando afferma che comunque non si torna indietro. Caposaldi di questa rivisitazione teologica che riabilita Israele agli occhi dei cristiani e della Chiesa sono il riconoscimento della sua Elezione e l’irrevocabilità dell’Alleanza. Un riconoscimento che è entrato a far parte della struttura dottrinale della Chiesa cattolica. Perché per secoli quest’ultima abbia detto degli ebrei e dell’ebraismo esattamente quello che oggi non si vuole e non si deve più dire, è tuttavia una domanda legittima e che esprime una preoccupazione sincera per l’assetto futuro delle relazioni ebraico-cristiane. Il terzo punto evidenziato dal Cardinale Kasper è la condanna dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo. Nostra Aetate ha reso giustizia agli ebrei scagionandoli una volta per tutte dall’accusa di deicidio. Certo, quante sofferenze e quanti lutti sarebbero stati risparmiati agli ebrei nel corso della storia se non si fosse atteso tanto per cambiare rotta. La croce per secoli è stata il segno e lo strumento dell’odio contro gli ebrei anziché dell’amore misericordioso e della riconciliazione. Proprio Kasper è oggi uno dei più strenui difensori della “rivoluzione della tenerezza e dell’amore“, parole cardine, a suo dire, del pontificato attuale. Togliendo l’accusa di deicidio rivolta agli ebrei, la Nostra Aetate ha privato l’antigiudaismo teologico del suo principale argomento. L’antigiudaismo teologico ha preparato il terreno sul quale poi si è propagato quell’antisemitismo moderno che ha condotto alla Shoah. La Chiesa perciò ha intrapreso un tribolato cammino di conversione che l’avrebbe infine portata al riconoscimento delle colpe dei suoi figli, anche quando indirette e parziali, a una sincera confessione e alla richiesta di perdono. I cristiani sono messi ripetutamente in guardia contro l’antisemitismo. Lo stesso Kasper scrive: “i cristiani non possono mai essere antisemiti“ (Ib., Chiesa cattolica, op. cit., pp. 472-473). La Nostra Aetate aveva sottolineato come Gesù, Maria, gli apostoli, fossero tutti ebrei. L’ebraicità di Gesù (Yeshua) è un dato storico e teologico. La Chiesa lo insegna quando dichiara nei Sussidi (1985) della Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo che “Gesù è ebreo e lo è per sempre“ (III.1). I cristiani non devono allora consegnarlo o lasciarlo in ostaggio delle ideologie. Prima di essere trasformato in qualcun altro, fosse pure un immigrato, un profugo palestinese, un indio dell’Amazzonia, un bimbo di colore nella greppia o un bimbo arcobaleno, Gesù è, e tale resta, un figlio di Israele. Verità ovvie, forse, o per qualcuno banali, ma le cui implicazioni non credo lo siano né dal punto di vista della storia degli uomini né dal punto di vista dell’eternità di Dio. Il quarto punto evidenziato da Kasper è il dialogo. Il dialogo ebraico-cristiano è uno dei frutti del Concilio. Il frutto di una Chiesa aperta al mondo. Gli ebrei sono cauti di fronte all’invito a dialogare da parte di chi, fino a tempi recenti, usava la parola come arma e strumento per convertire. E neppure Kasper può arrivare a convincerli più di tanto, malgrado le chiarificazioni e le rassicurazioni, quando intende e presenta il dialogo come “un elemento insito nella missione. Esso la deve precedere, accompagnare, completare e approfondire. Con questo significato esso è un compito essenziale e indispensabile di una chiesa missionaria” (Ib., p.471). In realtà, la Chiesa ha rinunciato a qualunque forma di proselitismo attivo nei confronti di Israele e ha scelto la via della testimonianza. Tenendo conto della sua natura missionaria, della sua vocazione evangelizzatrice, una simile riformulazione che distingue tra testimonianza (rivolta agli ebrei) e missione (rivolta alle genti) rivela la magnitudine della questione che rappresenta Israele per la Chiesa. Nota è anche la difficoltà di portare gli ebrei a dialogare sul piano dei contenuti della dottrina e della fede. Operare insieme per un mondo migliore, per la giustizia e la pace: questo lo scopo dichiarato a cui il dialogo, per gli ebrei, deve servire. Sono reticenti a un confronto sul piano teologico e religioso. Non riconoscono come proprie le aporie teologiche poste dall’universalità della salvezza in Cristo. Un tema vitale invece per la teologia cristiana. Aggiungo alcune brevi considerazioni sul dialogo maturate da me in quasi 30 anni di vita trascorsi in Israele. Israele non ha bisogno di discutere le sue prerogative di popolo eletto e di popolo dell’alleanza in funzione delle esigenze ermeneutiche e delle preoccupazioni teologiche proprie di una riflessione cristiana. Il dialogo dovrebbe allora esercitare il cristiano ad anteporre l’ascolto di Israele alla sua interpretazione. Anche il Sinai, che la teologia cristiana ancora non riesce a trattare adeguatamente neppure nell’attuale contesto del dialogo ebraico-cristiano, finalmente troverebbe il posto che gli spetta. Poiché la voce del Sinai un cristiano la può sempre ascoltare nella testimonianza di Israele. Di un Israele vivo, oggi come ieri. Israele diventerà davvero necessario nella sua concreta esistenza storica e teologica nella misura in cui si smetta di pensarlo solo in rapporto a (e a partire da) sé stessi. L’auto-referenzialità è un impedimento al dialogo. Una tendenza comune alle religioni. In questo senso, anche l’incipit della Nostra Aetate, il cui pregio e valore sono incontestabili, può non bastare. Esso spinge il cristiano a guardare dentro di sé e assai meno a chi gli sta davanti. Come la Chiesa appunto, la quale, scrutando il proprio mistero, scopre il vincolo spirituale che la lega alla stirpe di Abramo e il patrimonio che con essa ha in comune. Èd è questa la prospettiva anche di Kasper. Tuttavia egli ci ricorda anche che il dialogo ha da essere sincero. Senza ombra di strumentalizzazioni. Ed è la ricerca stessa della verità, in ultima analisi, a rendere il dialogo necessario, autentico e vero. Di una verità “sempre più grande“, come egli stesso scrive; che è più ricca e più ampia di “ciò che i cristiani ne hanno detto fino ad ora“, come amava ripetere Pierre Lenhardt NdS, fondatore e animatore a Gerusalemme dell’Istituto Ratisbonne – Centro Cristiano di Studi Ebraici, uno straordinario maestro postosi in ascolto di Israele, en Église, e che mi ha insegnato molto. Da lui ho appreso innanzitutto questo: che la ricerca della verità, come dovere religioso, incoraggia e giustifica l’azzardo. La mediocrità nuoce al dialogo. Questo è anche un monito contenuto nei Sussidi (I.6) e di cui si dovrebbe tenere maggiormente conto nell’odierno contesto del dialogo ebraico-cristiano. Da un commento rabbinico (midrash), cito un adagio: ha-ahavah meqalqelet et ha-shurah, che tradotto significa: l’amore scompagina l’ordine (Bereshit Rabbah 55,8 su Gn 22,3). Un antico adagio per un incontro che osa. Nello spir ito del Concilio e sulla scia della Nostra Aetate, Kasper si è dedicato al compito di promuovere, consolidare e approfondire i nuovi rapporti della Chiesa con gli ebrei e l’ebraismo. Ha contribuito a ripensare criticamente l’insegnamento passato e a mutare il disprezzo di ieri nel rispetto e nella stima di oggi. Mutamento che era divenuto tanto più urgente e necessario a motivo della Shoah. E in virtù del quale il popolo di Israele è riconoscibile agli occhi dei cristiani e della Chiesa come il destinatario di un’Alleanza mai revocata e come il testimone di un’Elezione che permane.
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