Polacchi d'Austria in Italia, italiani d'Austria in Galizia

Nel Museo “La Zona Carnia nella Grande Guerra” di Timau, piccolo paese in provincia di Udine, posto quasi al confine con l’Austria, c’è una fotografia d’epoca che risale al 1920, poco dopo la fine della Grande Guerra. Si trova appesa, insieme a molte altre, al muro di una sala. È l’immagine di una famigliola in posa, con il padre in divisa, che sfoggia una medaglia e tiene sulle ginocchia un bambino piccolo, la madre è seduta a fianco. La didascalia spiega chi sono quelle persone fissate dall’obiettivo: il sottufficiale di fureria dell’esercito asburgico Karol Wojtyla con la moglie e il figlio, destinato, meno di sessant'anni dopo, a diventare Papa Giovanni Paolo II.

Fra le truppe austro-ungariche che combatterono intorno a Timau nel primo conflitto mondiale, infatti, c'erano soldati di 11 regioni culturali diverse, tra cui anche un battaglione polacco galiziano, il 56° reggimento di fanteria Wadowice, in cui prestava servizio il padre del futuro Pontefice.
L'Impero asburgico, che prima dell’inizio della guerra si estendeva dalla Polonia meridionale alla Bosnia e dalla Boemia all’Ungheria, poteva contare su tre eserciti (assieme a due milizie territoriali o Landsturm, composte da uomini della riserva): quello comune, chiamato K.u.K. Heer o Imperial Regio Esercito Austroungarico, il Landwehr austriaco e l'Honvéd ungherese. Nel primo confluivano i soldati provenienti da tutte le regioni dell'Impero e parlanti la propria lingua, più ovviamente il tedesco.
È proprio in questo esercito che, raggiunti i vent'anni, Karol Wojtyla, classe 1879, galiziano di Lipnik, nella Polonia meridionale, abbandonato il mestiere di sarto, decise di intraprendere la carriera militare. Essendo volontario, venne assegnato al 56º reggimento di fanteria Wadowice, composto in gran parte da soldati polacchi della Galizia. Allo scoppio della Prima guerra mondiale gli eserciti erano pronti ad una guerra di movimento e conquista, ma dopo la battaglia della Marna del 1914 sul fronte occidentale, la guerra di posizione era ormai consolidata su due linee parallele di trincee divise da pochi chilometri.
Solo in Galizia le battaglie si svolgevano ancora secondo i canoni ottocenteschi dell'assalto alla baionetta, delle marce senza fine con pastrani pesantissimi, delle ritirate, degli assalti e delle conquiste di presidi nevralgici come la fortezza di Przemyśl. La Galizia orientale infatti era considerata un punto caldo e fondamentale, sia dall'asse tedesco per l'entrata in territorio russo, che dalle forze alleate russe per la penetrazione in territorio asburgico.
Karol, che nel frattempo si era sposato con Emilia Kaczorowska, figlia di un imbastitore di interni di carrozze, seguì il suo reggimento, incorporato nella 23ª Brigata di fanteria della 2ª divisione, che venne impegnato sul fronte orientale in Galizia, dove prese parte agli scontri del 1915. Dopo il crollo dell’Impero zarista e la pace separata di Brest-Litovsk con la Russia, il reggimento polacco di Karol, insieme a molti altri, venne spostato sul fronte italiano per rimpinguare i reggimenti sull'arco alpino e il fronte isontino. Qui Wojtyla prese parte alla Battaglia di Oslavia sul Monte Sabotino nell'estate del 1917, poi sul Pal Piccolo in Carnia e infine, assieme alle armate stanziate sull'Isonzo, marciò sul Piave dopo Caporetto.
Caduta l’Austria-Ungheria, Karol non abbandonò la carriera militare. Rientrato in Polonia, venne integrato nell'esercito nazionale polacco, dove raggiunse il grado di capitano, fino al congedo, avvenuto nel 1927 in seguito alla morte della moglie. Lui si spense per un infarto a Cracovia nel 1941. Il futuro Papa, Karol Józef, era nato, ultimo di tre figli, il 18 maggio del 1920, poco prima quindi della foto conservata a Timau, che si trova lì perché venne inviata direttamente dalla Santa Sede, quando il curatore del museo segnalò al Pontefice, che non la conosceva, la vicenda del padre.
Se soldati polacchi vennero trasferiti nel corso della guerra sul fronte meridionale, su quello orientale erano già stati mandati nel 1914, poco dopo lo scoppio delle ostilità, cittadini delle province meridionali dell’Impero. L’11 agosto 1914, 4.300 uomini inquadrati nel 97° K.u.k. Infanterie Regiment Freiherr von Waldstätten erano partiti dalla Südbahnhof (oggi Stazione Centrale) di Trieste e avevano raggiunto il 26 agosto la linea del fronte galiziano. Erano italiani, sloveni, croati provenienti in particolare da Trieste, Gorizia, dall’Istria e da parte del Friuli, ossia dal Litorale austriaco, e destinati alla fanteria. In Galizia presero parte alla terribile prima battaglia presso Leopoli, nel disperato tentativo di arginare l’avanzata di quello che era definito “il rullo compressore russo”.
Il reggimento perse, fra morti, feriti e prigionieri, circa il 75% dei suoi effettivi e la 3.a Armata fu costretta a ripiegare. Nell’agosto del 1914 combatterono inoltre per la prima volta nella vicina regione della Volinia i trentini e i ladini inquadrati nei Kaiserjäger e nei Landesschützen del 15° corpo d'armata di Innsbruck, che costrinsero l'esercito russo a ripiegare verso Lublino e il fiume Bug ed in seguito furono impiegati in tutte le principali campagne militari in Galizia. In questa regione vennero inviati nel corso della guerra circa 20.000 cittadini della Venezia Giulia e circa 45.000 tirolesi e ladini.
A guerra conclusa, tra i trentini e i ladini d'Austria si stimano circa 10.000 morti, mentre per i feriti e i molti prigionieri su suolo russo tutt'oggi non si hanno numeri precisi. Per il Litorale invece le perdite, come il numero degli arruolati, furono minori anche in virtù del fatto che una quota rilevante di coscritti di questo territorio era assegnata alla Marina.
Ma non sono solo le cifre e gli spostamenti di militari, mandati a combattere in zone per loro del tutto sconosciute, ad impressionare. Quello che sconvolge ulteriormente, è l'epopea che furono costretti a vivere i soldati dei territori italiani “irredenti” dell'Imperiale Regio Esercito Austroungarico rimasti prigionieri in Russia durante le campagne in Galizia.
Più di 10.000 fra trentini, friulani, triestini, goriziani e dalmati furono catturati tra il 1914 e il 1915 e condotti in campi di prigionia dietro le linee nemiche. In generale il governo russo, a detta degli stessi prigionieri, non si dimostrò rancoroso verso di loro, tanto che lo Zar Nicola II, nel 1914, comunicò la disponibilità a Vittorio Emanuele III di riportare in Italia tutti i prigionieri fino ad allora catturati. I militari sarebbero quindi ritornati in Italia, per venir reintegrati nel Regio Esercito qualora l'Italia si fosse schierata nel conflitto contro gli Imperi Centrali, in quanto si riteneva che la loro conoscenza del territorio poteva rivelarsi utile per un loro impiego al fronte o nelle immediate retrovie. Questa possibilità si rivelò inattuabile fino al maggio 1915, quando l'Italia scese in guerra.
Poche settimane dopo, da parte della Missione militare italiana a Pietrogrado presso lo Stato Maggiore russo, partirono iniziative volte a rintracciare i prigionieri delle terre “irredente” e a riunirli a Kirsanov, distante 500 km circa da Mosca in direzione sud-est, nel governatorato di Tambov. Nel primo anno di guerra 3.250 prigionieri furono raccolti in città, diventarono poi 4.000 nel 1916 e più di 6.000 nel 1917. C'era la difficoltà di stabilire un contatto con i prigionieri che non si trovavano nei campi di raccolta loro riservati, ma sparpagliati in una miriade di masserie e di villaggi, distanti l'uno dall'altro anche decine di chilometri, e che erano all'oscuro dell'opportunità di ritornare in Italia. Solo nel settembre del 1916, dal porto di Arcangelo, in Russia, partirono via nave in periodi diversi due scaglioni di 1.720 uomini e uno di 700 diretti verso Glasgow e poi Torino. Gli altri 2.000 uomini che rimasero in Russia nel 1916, dovettero aspettare la fine dell'inverno, ma invano.
L'anno successivo si scatenò la Rivoluzione, che compromise definitivamente la possibilità di altri trasporti in Italia lungo quella rotta. Si pensò così di favorire la concentrazione dei prigionieri rimasti lungo le coste del Pacifico, in vista di un loro rimpatrio via mare. In gruppi di 40 viaggiarono sulla ferrovia Transiberiana diretti in Oriente con documenti, un foglio speciale di via e 40 rubli a testa.
Tra la fine del 1918 e l’inizio dell’anno successivo, in pieno inverno, circa 2.500 uomini (500 si aggiunsero strada facendo), di cui 1.600 trentini e 900 fra friulani, litorali e adriatici, raggiunsero avventurosamente la Manciuria, e da qui Tientsin, Pechino e altre località della Cina, dopo un viaggio nella fredda steppa siberiana; in molti trovarono lavori saltuari fra una sosta e l'altra e nessuno risultò disperso. Dalla Cina si diressero poi negli Stati Uniti e da lì, con un piroscafo preso a New York, attraccarono a Genova, Napoli o Trieste sempre in piccoli gruppi.
Alcuni ricercatori hanno quantificato in 25.000 il numero dei richiamati di identità italiana che indossavano la divisa austro-ungarica fatti prigionieri dai russi, di cui da un minimo di mille a un massimo di millecinquecento provenienti dal Litorale austriaco. Per lungo tempo il destino e le vicissitudini dei soldati italiani che vestirono l’uniforme dell’Imperiale Regio Esercito, sono rimasti sconosciuti. Se nel primo dopoguerra fu tutto un fiorire di pubblicazioni di memorie e di ricordi di guerra in giro per l’Europa, ed anche in Italia, nella Venezia Giulia - come rileva, tra gli altri, Enrico Mazzoli - questa memorialistica coinvolse unicamente quanti s’erano schierati dalla parte dell’Italia, mentre i reduci delle sconfitte armate austro-ungariche, tacciati al loro ritorno a casa quali traditori, si chiusero senza eccezione alcuna nel silenzio. Questa quasi totale assenza di memorialistica è stata una delle cause all’origine di un vuoto storico che solo di recente, con grande difficoltà, alcuni studiosi stanno cercando, almeno in parte, di riempire.
*studente di Relazioni Pubbliche a Gorizia
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