Quando il cantiere San Marco smise di costruire navi cancellando Trieste dal mare

Un libro di Paolo Fragiacomo pubblicato dall’editore FrancoAngeli ricostruisce le trasformazioni della cantieristica in Italia nel periodo tra il 1861 e il 2011
Di Paolo Fragiacomo

Dal libro “L’industria come continuazione della politica. La cantieristica italiana 1861-2011” di Paolo Fragiacomo pubblichiamo una parte del capitolo “La rincorsa a ostacoli” dedicato ai Cantieri San Marco di Trieste, per gentile concessione della casa editrice FrancoAngeli.

di PAOLO FRAGIACOMO

Per la Commissione Caron il “via libera” al ridimensionamento del cantiere San Marco di Trieste, destinato a non costruire più navi ma a diventare stabilimento di riparazioni, era pressoché scontato. Le misure di compensazione previste dall’Iri e dal governo erano infatti molto ampie: il “notevolissimo” potenziamento del vicino cantiere di Monfalcone, la costruzione di un grande bacino di carenaggio che avrebbe permesso lo sviluppo delle attività di riparazione navale a Trieste, la concentrazione nel capoluogo giuliano, in uno stabilimento del tutto nuovo, dell’intera produzione nazionale di apparati di propulsione navale, altre iniziative industriali e commerciali minori. Nessun lavoratore del San Marco avrebbe perso il posto.

Eppure il piano Cipe incontrò a Trieste una dura opposizione, con preoccupanti momenti di tensione sociale. Anzi, prima ancora che la Commissione Caron concludesse i suoi lavori si innescò, nell’estate del 1966, quella che un protagonista della vicenda ha definito una “battaglia navale” con Genova per ottenere la sede della nuova società operativa Italcantieri, in un primo tempo prevista nel capoluogo ligure e poi in effetti assegnata a Trieste in seguito a pressioni politiche molto forti esercitate sul governo e sull’Iri. La reazione dell’opinione pubblica triestina, orientata e mobilitata dal quotidiano locale “Il Piccolo”, che ne sapeva d’altra parte cogliere gli umori profondi, esplose a fine giugno in coincidenza con la tradizionale conferenza stampa annuale nella quale l’Iri presentava i suoi risultati di bilancio. In quella occasione il presidente dell’Istituto, Giuseppe Petrilli, annunciò alcuni dettagli del programma di ristrutturazione della cantieristica. Il quotidiano triestino titolò in prima pagina su sette colonne di spalla: “Condannati i cantieri triestini nel piano di concentrazione” (pur riportando poi nel sommario tutte le misure compensative previste a fronte del ridimensionamento del San Marco). La corrispondenza da Roma sulla conferenza stampa dell’Iri era accompagnata da un fondo del direttore Chino Alessi, dal titolo a effetto: “Cancellati dal mare”.

Nell’articolo del direttore, in sostanza, si esprimeva il rifiuto di un provvedimento che finiva per intaccare l’autonomia della cantieristica triestina, anche se accompagnato da investimenti sostitutivi, perché tutto «si sminuisce, si frantuma, passa in seconda linea di fronte alla condanna a morte della nostra industria navale».

Una così drastica reazione al progetto di ristrutturazione dei cantieri si spiega indubbiamente con le difficoltà e con le incertezze, economiche e politiche, che Trieste aveva vissuto nel dopoguerra: solo nel 1954 la città era ritornata all’Italia, dopo un periodo di amministrazione anglo-americana. Ma le radici di questo atteggiamento, a ben vedere, sono ancora più lontane, e si possono far risalire al carattere protetto e assistito dell’economia triestina, che si era determinato in seguito al passaggio della Venezia Giulia dall’Austria all’Italia dopo il primo conflitto mondiale, ma già prefigurato per alcuni tratti in epoca asburgica. Fallito sostanzialmente il disegno di fare della città l’avamposto per una penetrazione dell’Italia nell’Europa centrale e nei Balcani, e trasferito negli anni ’30 gran parte dell’apparato industriale nelle mani dell’Iri, cioè dello Stato, Trieste aveva smarrito il suo ruolo e il ceto dirigente la sua autonomia decisionale.

L’annuncio del ridimensionamento del San Marco non poteva tuttavia essere considerato una sorpresa. Di ridotte dimensioni e condizionato da una situazione topografica infelice, senza possibilità di sostanziale ampliamento, il San Marco presentava risultati economici assai negativi, nonostante avesse realizzato anche petroliere in serie. (…) L’approvazione definitiva del piano da parte del Cipe scatenò a Trieste violente manifestazioni di piazza, nonostante la città avesse ottenuto a fronte del ridimensionamento del San Marco, accanto alle già previste compensazioni, anche la sede dell’Italcantieri. Sabato 8 ottobre, il giorno dopo l’annuncio, in alcuni quartieri periferici le manifestazioni di protesta si trasformarono per tutto il giorno in guerriglia urbana, in un duro scontro con la polizia. Vi erano già state in precedenza avvisaglie di violenza, durante uno sciopero generale ad agosto e anche qualche giorno prima, ma avevano coinvolto solo alcune frange estremiste. A fine giornata il bilancio fu di 450 fermi, 89 arresti, 79 tra feriti e contusi, numerosi danni culminati con un episodio increscioso: l’assalto e la distruzione della sede del circolo Acli nel quartiere popolare di San Giacomo.

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