Quella volta che sono rimasto chiuso in una libreria. E ho capito davvero cos’è Trieste, luogo di intrecci

Mio padre forse aveva conosciuto Stuparich, e per me era l’unico scrittore vero, perché conosceva mio padre
Pioggia ai portici. Daria Tommasi è un’artista e illustratrice triestina
Pioggia ai portici. Daria Tommasi è un’artista e illustratrice triestina

TRIESTE Una volta comperai da un antiquario di Trieste, per regalarla, una lettera di Bobi Bazlen. Più esattamente, comperai una copia del volume Scrittori tedeschi del Novecento, di Bonaventura Tecchi, Parenti 1941, nel quale era infilata una breve lettera dattiloscritta – cinque o sei righe – di Bazlen. Aveva ricevuto il volume in prestito da Anita Pittoni, fondatrice delle edizioni dello Zibaldone, e la lettera accompagnava la restituzione. In quelle poche righe Bazlen tratteggiava un progetto di casa editrice: qualcosa di già molto simile a ciò che poi sarà Adelphi. Mi colpì, nella brevità, la noncurante sicurezza. Una volta, in non so più quale caffè di Trieste, scambiai qualche parola con Giorgio Voghera.

Avevo trentasei anni, lui quasi novanta. Me lo indicò un amico: non sospettava che io conoscessi il Quaderno d’Israele e Gli anni della psicoanalisi. Avevo letto anche, ma ignoravo che ne fosse lui l’autore, il romanzo Il segreto, firmato «Anonimo triestino»: era nella biblioteca dei miei genitori. Mi presentai, salutai, gli dissi che per me i suoi libri erano stati importanti. «Lei scrive?», mi domandò. «Sì». «E le piace?». «No».

«Bravo», mi disse, «continui così». Una volta, in una libreria di Trieste, rimasi un bel po’, seduto per terra, a sfogliare i tre volumi dell’Epistolario di Scipio Slataper curati da Giani Stuparich. Mio padre aveva conosciuto Stuparich – non so come e quando e perché, ma credo da giovane, forse da ragazzo – e aveva grande ammirazione per lui. Per me Stuparich era magico, perché era l’unico scrittore del quale ero certo, poiché mio padre lo aveva conosciuto, che avesse avuta una vita reale. Nella biblioteca dei genitori c’era l’edizione del 1941 di Ritorneranno. Mio padre era del ’28, non so se quell’edizione l’avesse comperata lui o – ma non credo – il suo fascistissimo genitore. Fu leggendo Ritorneranno, quattordicenne, che mi appassionai alla storia della Grande Guerra, della quale diventai, poco più che adolescente, un vero esperto.

Quando mi alzai per uscire – non potevo permettermi di comperare quei volumi – scoprii che la libreria aveva chiuso. Era l’una. Fui liberato dal proprietario, un paio d’ore più tardi. Un po’ d’imbarazzo, molte risate. Una volta, in un’altra libreria di Trieste, trovai una copia dell’Inferno di Henri Barbusse. Non sapevo niente di lui. M’incuriosì la copertina – era l’edizione Sonzogno del 1950 –: tutta rossa, con delle fiamme gialle sul bordo inferiore, e un grande occhio di taglio quasi egizio al centro. Sfogliai. Notai, sul frontespizio, una firma di proprietà. Il cognome del fimatario era il medesimo della mia nonna materna: Mylini. La famiglia di mia nonna era di San Daniele del Friuli. Chiesi al libraio se ricordava da dove venisse quel libro. Non sapeva dirmelo. Stupidamente non lo comperai, lo lasciai lì. Oggi basta una banale ricerca in rete per scoprire che i Mylini sono stati, sono pochissimi. D’altra parte che in casa dei miei nonni potesse essere entrato un libro di un autore pressoché bolscevico – mi pareva strano. Un appuntamento mancato.

Una volta venni a Trieste per incontrare Giorgio Pressburger. L’editore per il quale lavoravo, Cesare De Michelis, mi aveva affidato l’editing del suo ultimo romanzo, Don Ponzio Capodoglio. Un romanzo stranissimo e molto bello il cui protagonista passa dall’ossessione per la propria identità alla coscienza che i racconti identitari sono una fregatura. Una colossale fregatura. Scoprii – lo ignoravo – che Pressburger aveva frequentato lo Studio di fonologia musicale della Rai di Milano nei tempi in cui ci trafficavano Bruno Maderna, Luciano Berio, Umberto Eco e altri. Passai tutto il giorno a farmi raccontare. Trieste per me è questa cosa qui. Un luogo di intrecci. Un luogo dove tra i libri e le persone c’è ben poca differenza. —

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