Recuperano il campo ereditato e ne fanno l’orto del futuro

In attesa degli orti urbani progettati dal Comune assieme al contestuale recupero dell’ex scuola di Cassegliano, dove faranno base le relative attività di formazione, a San Pier d’Isonzo, poco distante dall’imbocco della strada per San Zanut, ha preso forma un’esperienza tanto “privata” quanto fondata sull’esigenza e la voglia di recuperare saperi antichi, legati alla terra e al territorio.
In un campo, ereditato dal nonno, Manuela Valent e l’amica Alessandra Bernardis, entrambe della zona, hanno creato uno spazio che riporta alla memoria gli orti una volta coltivati a ridosso delle abitazioni, dove ortaggi, piante aromatiche e fiori convivevano per essere usati in cucina, ma anche perché erano un piacere per gli occhi. Nell’orto di Manuela e Alessandra, dove ad accogliere i visitatori c’è una pergola realizzata con materiali “di scarto” (i pali in legno di una vigna, una testiera di un letto, dei bancali) e dove per sedute si trovano delle balle di fieno, origano, menta rosmarino e salvia si trovano a dividere lo spazio con pomodori e fagiolini, cetrioli, zucchine e carote, ma anche fragole e fiori come la Malvarosa comune. A fare da guardia alle piante, tutte in ottima salute, degli imponenti cardi e degli svettanti girasole.
Eppure tutto è cresciuto senza apporto di concimi chimici e diserbanti, sottolineano le due amiche, cui l’idea dell’orto è venuta leggendo “L’erbariol”, scritto da Alfredo Altobelli con Rosa Braut e Marino Boriani per riportare alla memoria proprietà, culinarie e non, delle erbe spontanee. Se Manuela ci ha messo il terreno e la passione, Alessandra qualche conoscenza ce l’aveva, lavorando, benché come educatrice, in un podere didattico della Bassa friulana. «È nata così l’idea di creare l’orto nelle casse, quindi rialzato e meno esposto alle piante infestanti – spiega –, oltre che più comodo per noi che ci lavoriamo» . Dai pomodori e dalle melanzane, nell’arco di due anni, grazie anche alle chiacchierate proprio con Altobelli, le due sono passate a pensare a un orto sinergico, in cui in sostanza sono le consociazioni tra specie a fare la felicità delle singole piante, arricchendo il terreno e combattendo i parassiti. La gran parte dell’area a disposizione è, e rimarrà, però, un prato. «Una volta c’era una coltivazione di erba medica, ma ora si sta trasformando, naturalmente, in un prato polifita, che è tutelato» , spiega Altobelli, ricercatore e docente di Ecologia del Dipartimento di scienze della vita dell’Università di Trieste. «Bisogna proporre un cambiamento nella concezione delle erbe spontanee alimentari - spiega - da considerare non solo come semplice passatempo, ma una vera e propria risorsa di sostanze bioattive». A proteggere la “comunità biologica”, dove già ora gli insetti impollinatori abbondano, le due donne pensano di bordare il lato del campo confinante con un appezzamento coltivato in modo intensivo con una serie di piante di gelso. «Non solo per creare un microclima più umido, ma anche per ricordare la tradizione tutta locale dell’allevamento dei bachi da seta» così Manuela. Di fondo, in ogni caso, c’è il piacere di prendersi cura delle piante e di goderne i frutti, in uno spazio dove il silenzio è ancora il padrone quasi indiscusso. —
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