Riccardo Muti e i cattivi maestri
Impressionante il confronto fra l'età media del pubblico in platea (sui sessantacinque) e quella dei componenti dell'orchestra giovanile Luigi Cherubini (trent'anni o giù di lì) diretta dal maestro Riccardo Muti. Un'istantanea dell'imbarbarimento culturale del Paese

In una notte fredda di stelle ho sentito l'inaudita potenza che Riccardo Muti ha spremuto da un'orchestra di giovani italiani l'altra sera al teatro di Udine. Era una messa per defunti, ma paurosamente carica di vita nonostante la presenza della Morte con la M maiuscola. Da non credere: il terribile "Confutatis maledictis" del giudizio pareva una romanza d'amore e il coro sprigionava zampilli di gioia dopo gli assoli funebri del basso. Musica napoletana (Paisiello, secolo diciottesimo), terrona e geniale, quintessenza dell'Italia migliore, con cui il Maestro - in un formidabile contrappasso - ha infiammato una platea di padani, a ricordare che siamo una Nazione.
Ma la cosa più impressionante della serata non era la musica. Era il confronto fra l'età media del pubblico in platea (sui sessantacinque a occhio e croce) e quella dei componenti dell'orchestra giovanile Luigi Cherubini (trent'anni o giù di lì). Mio dio, mi sono detto mentre le luci si spegnevano, ma nelle poltrone ci sono solo vecchiacci come me. E quando ho alzato gli occhi e ho visto che persino il loggione era "geriatrico", allora ho capito che ciò che vedevo, con un tuffo al cuore, era semplicemente la misura demografica dell'imbarbarimento culturale del Paese. Era una diserzione generazionale. Trent'anni fa i giovani avrebbero fatto a pugni per conquistarsi uno strapuntino a una serata simile. Ora era tutto finito. Anche se un posto negli ultimi palchi costava meno di uno sballo in discoteca.
E così, tra un Requiem e un Christe Eleison, ho cominciato a pensare alla differenza tra i giovani presenti sul palcoscenico e quelli assenti in sala. I primi erano una confraternita di gioia, incanto, invenzione, follia; ma anche di rispetto, disciplina e senso della gerarchia. Quei ragazzi erano tutto ciò che ci è stato tolto in questi anni di dissipazione. Erano canto, allegria, gusto della condivisione, e ciò in un Paese che non canta più, si barrica in casa e invoca le ronde contro i forestieri. Fuori da quella sala, invece, c'erano troppo spesso ragazzi soli, abbandonati, curvi su Facebook o a cercarsi come lupi nella notte digitando ululati via sms. Dimenticati da noi nel paese dei balocchi, un mondo artificiale allestito per mascherare il saccheggio. Giovani allo sbando, senza un esempio, una guida. Privati di quello che una semplice e antichissima parola è capace di riassumere. Un maestro.
Ed ecco che in quel teatro, sotto le stelle delle Alpi orientali, il contrappasso si precisava. L'uomo in giacca nera che dirigeva orchestra e coro con il lampo delle sue occhiate e scuotendo la sua chioma brizzolata, era appunto l'entità inestimabile che mancava a giovani rimasti fuori al freddo: il Maestro. Non semplicemente un direttore, ma uno che insegna a salvare il salvabile, a resistere allo sfacelo dei tempi. Un costruttore di valori. Lo capivi dai gesti, dall'economia dei movimenti.
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