Ripartiamo nonostante le scarpe rotte
Preoccupa soprattutto che manchi un’idea precisa del dove bisognerebbe andare: nessuna “primavera” sembra attenderci. E cosa può significare per ciascuno di noi questo camminare con scarpe bucate?

Le “scarpe rotte” rappresentano una buona metafora per l’attuale condizione di un Paese che deve riemergere dallo stallo provocato dalla pandemia. Già prima la situazione era piena di buchi, i governanti annaspavano e la maggior parte della gente cercava di cavarsela. Adesso, preoccupa soprattutto che manchi un’idea precisa del dove bisognerebbe andare: nessuna “primavera” sembra attenderci. E cosa può significare per ciascuno di noi questo camminare con scarpe bucate?
In realtà l’immagine che ho più in mente in questi giorni non appartiene all’epopea di Fischia il vento, ma mi arriva dal corpo riverso del procuratore della Repubblica Mario Amato, ucciso freddamente a Roma da un terrorista nero mentre aspettava l’autobus per andare in ufficio, il 23 giugno di quarant’anni fa. E soprattutto da un particolare: un grande buco in una delle sue scarpe. Era un magistrato che aveva sulle spalle tutte le inchieste sui gruppi della destra eversiva del Lazio: perciò era rimasto isolato dai colleghi. Quella mattina gli era stata negata l’auto blindata per motivi futili (il servizio cominciava solo alle 9) e perciò si era incamminato alle 8, a piedi, verso la fermata del bus.
Non mi identifico con la sua sventurata vicenda, diciamo che si trattava di altri tempi, ma con quel vistoso buco nella suola. Lui andava a lavorare, noi oggi dove stiamo andando un po’ alla cieca? Abbiamo anche noi le scarpe bucate? Lui probabilmente non ci badava, pensava ad altro e si prendeva poca cura di sé stesso.
Noi viviamo quasi tutti nella corrente del consumismo, abbiamo imparato a curare i particolari del nostro apparire: nessuno uscirebbe di casa tranquillamente con un buco nella scarpa, nessun genitore permetterebbe al proprio figlio di andare in giro così trasandato. Teniamo al nostro aspetto esteriore, così come alla cura della nostra fisicità. Nei mesi di lockdown molti hanno sofferto per le restrizioni dell’attività “motoria”.
Già prima della pandemia non sapevamo dove volessimo andare: verso un maggiore benessere, certo, ma per farne che? Non raccontiamoci la favola bella che volevamo impegnarci nella battaglia contro la povertà, perché avevamo soprattutto a cuore la questione delle disuguaglianze che stavano clamorosamente crescendo. “Egosauri” (come mi piace dire) eravamo e – almeno sembrerebbe – “egosauri” vorremmo ripartire, se possibile vestiti bene e senza buchi nelle scarpe. Così sembra, guardandosi un po’ in giro, anche se non tutti vorremmo continuare a remare in questa direzione. E forse dovremmo smetterla di lamentarci con il governo “pigro”, con poco respiro, tutto preso dal giorno per giorno, come se avessimo in tasca la ricetta della giusta andatura e delle buone destinazioni.
Intanto, andare in vacanza. Non è una battuta irriverente nei confronti dei pesanti problemi che affliggono il mondo del lavoro e le riserve finanziarie dentro cui si dibatte il governo, per non parlare dello stato complessivo di salute dell’economia, o per tacere del procedere annaspante verso la riapertura delle scuole. È la constatazione del fatto che le menti di moltissime persone (“moltissime” è una locuzione per difetto) sono rivolte alla sospirata pausa estiva, al colore azzurro del mare e al colore verde dei boschi, o ai colori che si mostreranno loro nel sospirato viaggio.
Faccio solo un esempio che riguarda la dimensione mediatica: vi sembra sensata questa fretta di interrompere programmi televisivi di discussione politica, o di informazione approfondita sull’attualità, solo perché siamo arrivati a luglio? Dovrebbero venire interrotti quando c’è poco o nulla da raccontare o da discutere. Farlo così, solo perché incombono i mesi estivi, ha davvero poco senso. Siamo nel pieno del cosiddetto dibattito sul che fare, e noi ci occupiamo di preparare valige e sacche? Se facessimo risuonare dentro le nostre teste quell’“E pur bisogna andare” da cui sono partito, dovremmo almeno sorridere (di noi stessi).
Infine, ragioniamo sulle “scarpe rotte” e sui risvolti metaforici che producono. Sarebbero il fascio di guai economici che ci assilla ogni giorno, che ci guasta il buonumore con scenari prossimofuturi anche angoscianti? È questo che ci sospinge ad “andare”? Sospetto che, semmai, questo carico possa pesare in misura più o meno gravosa sulla groppa di ciascuno e che ognuno di noi desideri scuoterselo di dosso almeno per un po’. Mi scuso dell’impertinenza, ma più che le scarpe, forse avvertiamo come rotte le scatole, insomma siamo semplicemente un po’ stufi...
Non tutti, vorrei infine far notare: c’è chi resiste all’appello della noia e cerca di convincere gli altri che la strada verso un plus di responsabilità e un’idea rinnovata di solidarietà non è bloccata, anche se costa fatica. Già la pubblicità se ne è impossessata facendo aggio sui buoni sentimenti (finché durano). Comunque è un percorso difficile, pieno di ostacoli, con tempi brevi, nel senso che abbiamo poco tempo per compierlo, dato che le scarpe di ognuno, prima o poi, più prima che poi, si usurano fino a impedirci di camminare. –
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