Rivive la panchina di Farra d’Isonzo. Quei bambini diventati nonni la inaugurano 60 anni dopo
Via Conti Zoppini era il ritrovo magico di cinque famiglie del paese. Il manufatto dopo il restauro andrà nel Museo della Civiltà Contadina

FARRA “Un luogo di sosta, un’utopia realizzata. Sulle panchine si contempla lo spettacolo del mondo, ci si incontra e ci si dà il tempo di perdere tempo”. Così lo scrittore Beppe Sebaste definiva l’elemento urbano forse più semplice eppure più prezioso dei nostri paesi. Silenziose testimoni di una comunità che si concede tempo per conoscersi, pensare, parlare, le panchine possono racchiudere tante storie. E una bella storia è certamente quella che emerge da Farra d’Isonzo, dove è tornata a vivere la panchina di via Conti Zoppini, che conduce al centro del paese. Non solo: l’onore di inaugurarla è toccata ai bambini... di 60 anni fa, che la utilizzavano per giocare, raccontarsi i sogni e gustare un gelato che arrivava via motociclo dai paesi vicini.

Divorata dall’edera, la panchina di via Zoppini era ormai praticamente invisibile alla vista, abbandonata, deteriorata. L’intuizione del vicesindaco Fabio Verzegnassi, colpito dall’attaccamento dei suoi concittadini a quell’elemento urbano, è stata quella di darle nuova vita, andando oltre la semplice manutenzione. E così, se il manufatto originale sarà restaurato e verrà esposto dapprima in municipio e poi al Museo della Civiltà Contadina, nel frattempo c’è una nuova panchina a impreziosire via Zoppini: di colore rosso, è stata restituita al paese nella Giornata internazionale contro la violenza di genere. Alla cerimonia hanno preso parte il sindaco Stefano Turchetto con la sua giunta – toccante il discorso dell’assessore Debora Bonutti –, una rappresentanza delle donne benemerite dell’Associazione Carabinieri, delle Donatrici di sangue, le volontarie della Protezione civile, le ragazze della Farravolo e le consigliere comunali.

È toccato invece alla compaesana Fulvia Cimador raccontare la storia di quella panchina realizzata negli anni ’50 da Giuseppe Ballaben classe 1919, esperto ebanista. Il vento, il freddo e soprattutto la pioggia lo costringevano a rimpiazzarla regolarmente, accudita con amorevole cura. Era il ritrovo serale delle cinque famiglie: Giuseppe Ballaben con la moglie Maria Bressan e la figlia Cesarina; Luigi Ballaben, classe 1894 con la moglie Anna Bressan e i figli Carla e Giuliano; Ubaldo Castellan, classe 1893 con la moglie Albertina Farina e i figli Giulio e Matilde; Giovanni Miculin con la moglie Nerina e la figlia Raffaella; e per finire Rico Mauri con la moglie e Gigi detto “Filip”. «Alla sera, a cominciare da fine primavera sino all’estate inoltrata la panchina era il ritrovo di queste famiglie per parlare, confrontarsi e discutere – ricorda Cimador –. La televisione non era ancora presente in tutte le famiglie e non era una necessità». Un’attrazione in grado di coinvolgere tutto il piccolo “rioncino”. «Ricordo il 1976, l’estate del terremoto – racconta –: dopo le scosse eravamo sempre tutti attorno alla panchina quasi a cercare un abbraccio e un posto sicuro fuori dalle mura domestiche». Quei bambini sono diventati nonni, e il deperimento del loro ritrovo li immalinconiva. «L’occhio cadeva sempre lì, a quel contenitore dei nostri ricordi – dice Cimador – testimone di un tempo che non dobbiamo dimenticare. Sono felice che possa avere nuova vita, pronta ad accogliere nuove persone e nuove storie».
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