Rose, materassi e sigarette Viaggio nei segreti dell’ex Opp

Decine di persone a San Giovanni per partecipare alla passeggia storica nel parco A ricostruire storie e personaggi lo psichiatra udinese Novello allievo di Basaglia
Di Lilli Goriup
Lasorte Trieste 05/05/17 - Parco di S.Giovanni, Ex OPP, Roseto, Visite
Lasorte Trieste 05/05/17 - Parco di S.Giovanni, Ex OPP, Roseto, Visite

«Dentro era buio. Una ragazza, avrà avuto vent'anni, cercava di liberarsi con le unghie e con i denti. Le infermiere le piombarono addosso come una falange oplitica, reggendo due materassi con i quali la colpirono fino a stenderla. In seguito fu lobotomizzata». Mentre il sole squarciava le nubi sopra il roseto del parco di San Giovanni, ieri mattina, si è reso necessario uno sforzo per figurarsi che la scena era avvenuta proprio lì, negli spazi che costituivano il manicomio cittadino. Era l'inizio degli anni Settanta. Franco Basaglia aveva appena vinto il concorso per la Direzione dell'ospedale psichiatrico di Trieste e nella sua équipe c'era un giovane psichiatra, Mario Novello. Che ieri ha ripercorso i luoghi dell'ex Opp ricostruendone la storia, stavolta nei panni del professore esperto.

A seguirlo nel viaggio-conferenza, inserito nella rassegna “Rose, libri, musica, vino”, un nutrito pubblico. «Dove vedete le rose, un tempo c'erano i campi, lavorati dagli internati - ha continuato Novello -. Cinque sigarette: ecco la paga di un giorno di fatica. Chi poteva lavorare era tuttavia fortunato: attorno ai padiglioni c’erano dei recinti e i più non ne uscivano mai, fino alla morte».

Quella storia affonda le radici più indietro, all'alba della contemporaneità, quando la Francia illuminista edificava i primi ospizi per incatenarvi gli individui ritenuti socialmente pericolosi. E non è conclusa: se la legge 180 fu approvata nel 1978, non ha ancora attecchito capillarmente sul territorio nazionale. Lo stesso Novello proseguì la sua carriera chiudendo il manicomio di Udine, attraverso un processo iniziato nel 1995 e durato più di dieci anni: fino ad allora nel capoluogo friulano si sono continuati a praticare l'elettroshock e la contenzione. In Italia l'istituzione manicomiale fu sancita dal governo Giolitti. «La legge 36 del 1904, considerata reazionaria già all'epoca, poneva i manicomi sotto l'egida del ministero dell'Interno, lo stesso che presiede alla polizia. Era rivolta contro le persone considerate pericolose».

La 36 ha attraversato il secolo breve. «Io, che ho iniziato nel 1972, ho lavorato sotto quella legge. C’erano 30 giorni di tempo per dimettere, al termine dei quali chi non riusciva a farsi diagnosticare la guarigione veniva dichiarato internato dal tribunale. Perdeva così per sempre i suoi diritti. Con Basaglia cercavamo tutti i sotterfugi possibili per non sforare i 30 giorni».

Lasciandosi alle spalle il roseto, il gruppo si è incamminato in direzione della chiesa e del Teatro Franca e Franco Basaglia. Sul retro di quest'ultimo uno spazio sterrato funge da palcoscenico per spettacoli all'aperto: stride con l'idea della contenzione. Qui Novello ha spiegato: «ll teatro si rifà a quello dell'ex Opp di Vienna, a sua volta ispirato ai villaggi terapeutici di Geel, in Belgio, dove si teorizzava l'emancipazione dei malati già nell'Ottocento».

A volere il complesso ospedaliero triestino fu la borghesia di formazione mitteleuropea. «Nei salotti colti della Trieste asburgica si andavano diffondendo ideali solidaristici nei confronti del popolo, che invece versava in condizioni di estrema povertà. Un lascito di più di un milione di fiorini, da parte dell'imprenditore Galatti, finanziò la costruzione del frenocomio. Quando fu inaugurato, nel 1908, era distante anni luce dall'attuale nozione di salute mentale. Ma lo era anche dai manicomi giolittiani, che contemporaneamente venivano edificati».

Nel 1918 la fine della Prima guerra mondiale decretò la dissoluzione dell'impero austroungarico e il passaggio di Trieste sotto la sovranità delle leggi italiane. L'ospedale psichiatrico di San Giovanni assunse così la sua tristemente nota configurazione. Oggi si scorgono i dipartimenti dell'Università, dal terrazzo in cima alla scalinata affacciata su via Edoardo Weiss: quegli stessi edifici sono stati a lungo carceri, disposte secondo una logica simile a quella dei gironi danteschi. «All'ingresso, nel padiglione Ralli, stazionavano i bambini abbandonati come in un limbo. Proseguendo in salita, aumentava la gravità: c'erano il reparto osservazione, poi il padiglione dei semi-agitati, degli agitati, dei “sucidi”, come venivano chiamati a Trieste, per errore o per inflessione dialettale, i “sudici”. Il passaggio da un reparto all'altro scandiva le tappe del ciclo di vita delle persone. Alla fine della salita, in prossimità dell’uscita dal manicomio, c’era l'obitorio: un retromessaggio quasi esplicito».

Il ventennio fascista aggiunse una nuova componente a quella schiera: accanto a donne isteriche e ammalati di miseria comparvero gli oppositori del regime. Esistono testimonianze di rapimenti ai danni dei ricoverati durante l'occupazione nazista del 1943-'45: probabilmente ebrei, che hanno finito i loro giorni nella Risiera di San Sabba. «Negli anni Settanta iniziammo a fare qui le assemblee, forti della giovane Costituzione repubblicana, che fu il presupposto della rivoluzione basagliana: non c'è salute mentale senza diritti».

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