Sciopero del pane, i motivi della protesta dei sindacati

Due giorni senza pane. Per quarantott’ore i panificatori del Friuli Venezia Giulia scendono in sciopero, seppur con modalità diverse. Anche a Trieste i forni si spengono venerdì 21 e sabato 22 ottobre.
Ma quali sono nello specifico le ragioni della mobilitazione? Abbiamo contattato Edvino Jerian, della Federazione nazionale panificatori, e Attilio Cornelli, Segretario nazionale della Fai Cisl con delega all'industria alimentare. Ovvero due dei rappresentanti delle parti che stanno discutendo il rinnovo del contratto, scaduto da 21 mesi.
Quanti sono gli addetti del settore coinvolti
2mila e 500 lavoratori in Friuli Venezia Giulia e 80mila in tutta Italia
Quali sono le parti coinvolte
Da un lato ci sono i sindacati di categoria, Fai Cisl, Flai Cgil e Uila Uil.
Dall’altro le rappresentative delle aziende, Fiesa (ovvero la federazione di categoria che rappresenta e tutela gli interessi degli esercizi di vicinato del settore alimentare tramite le associazioni di settore come Assopanificatori) e Federpanificatori, che ha quale obiettivo primario la rappresentanza e la tutela delle imprese di panificazione.
I problemi di categoria
Le difficoltà dei piccoli panifici a competere con le aziende della grande distribuzione sono note. Si aggiunge, in Regione, il tema della concorrenza slovena, che fa abbassare il costo della manodopera e ridurre i margini di profitto. In Friuli Venezia Giulia in pochi anni ha chiuso quasi il 50% delle imprese, denuncia Federpanificatori. I supermercati si servono di personale pagato come commesso e non come operaio panificatore (il cui costo è un 20% in più, e che gode di ben altre garanzie contrattuali) per cuocere e vendere il pane, sostiene la Federazione. La grande distribuzione, inoltre, può utilizzare prodotti congelati da cuocere sul momento, abbattendo i costi di vendita al dettaglio.
Lo stipendio mensile
Circa 1.200 euro netti esclusi straordinari e festivi, che secondo i panettieri non ripaga dei sacrifici quotidiani: svegliarsi all’alba, l’assenza di una vita sociale, l’impossibilità a concedersi piccoli sfizi. I contratti per i più giovani sono meno redditizi, e non manca chi fa due lavori se deve far fronte a spese straordinarie o un mutuo.
L’orario di lavoro
Si lavora sei giorni a settimana per un totale di 40 ore, straordinari esclusi. Durante le festività gli orari si allungano e si lavora anche al pomeriggio (la sveglia è alle 4 del mattino).
Cosa rivendicano i sindacati
Denunciano principalmente il mancato rinnovo del contratto dopo 21 mesi. Chiedono un contratto nuovo di validità quadriennale con un aumento salariale a livello nazionale, al primo livello di contrattazione, e accusano le controparti Fiesa e Federpanificatori di voler ragionare solamente sul secondo livello, ovvero su base territoriale. La categoria si batte anche per ottenere, in caso di malattia, per ogni tipologia di rapporto di lavoro, la copertura al 100% della retribuzione normale per un minimo di 180 giorni, e l’integrazione economica al 100% anche per i periodi di paternità e maternità obbligatoria e anticipata (oggi l’80% è a carico dell’Inps e nulla a carico del datore di lavoro nel caso di maternità obbligatoria, mentre per la facoltativa il 30% lo paga l’Inps e nulla l’azienda).
“Ci sembrava ci fossero le condizioni per un contratto collettivo da Trieste a Canicattì”, riferisce Attilio Cornelli, Segretario nazionale della Fai Cisl con delega all'industria alimentare. “Siamo disponibili a parlare di condizioni economiche differenti di territorio in territorio, ma il problema è nell’atteggiamento della controparte. Abbiamo assistito ad una fase in cui sembrava che avessero capito che per chiudere un contratto con le nostre 3 federazioni bisognava riconoscere qualcosa a livello economico che fosse garanzia per tutti gli operatori del settore. Il contratto è scaduto da quasi due anni, e vuol dire che da due anni i panificatori non portano a casa aumenti. Siamo disponibili a trattare. Abbiamo detto esplicitamente che non accettiamo però la pregiudiziale sul tavolo, ovvero aumenti zero a livello nazionale e tutto da giocarsi sul secondo livello, che oggi non è garanzia se non in alcuni, pochissimi territori. Siamo disponibili dunque a ragionare di territorialità, ma non possiamo tornare a casa con aumento zero per agli operatori di settore”.
Cosa ribattono Fiesa e Federpanificatori
Va bene l’aumento, ma purché tenga conto dei parametri territoriali e delle performance dei dipendenti. I sindacati, sostiene la Federazione nazionale panificatori, negano ogni disponibilità a riconoscere aumenti contrattuali sui minimi tabellari nazionali e non vogliono differenziare il salario su base territoriale e regionale. “Nella contrattazione si è ora arrivati al punto di chiedere un incremento senza alcuna base di calcolo”, riferisce Edvino Jerian. “Non si tiene conto per esempio dell’andamento del PIL in ciascuna provincia; degli indicatori nazionali; del costo del pane differente a Reggio Calabria e a Bolzano; dell’andamento della singola impresa deducibile dagli studi di settore obbligatori e della performance dei dipendenti”.
“Il modello attuale di rinnovo, testardamente difeso dai sindacati e sostanzialmente identico da 50 anni a questa parte, è come sempre un’elencazione di richieste normative (sulle quali peraltro la federazione ha fin dall’inizio dato disponibilità a discutere e a trovare soluzioni condivise) che non fanno altro che fare da condimento alle richieste economiche quantificate in 106 euro mensili”, scrive il sito panificatori.fvg.it
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