«Sono fuggito nascosto in un camion perché mi sono rifiutato di uccidere»
«Sono sempre stato un onesto cittadino nella mia patria, ma se tornassi indietro mi arresterebbero. E sapete perché? Perché mi sono rifiutato di uccidere». P.N. - temendo qualche ritorsione ci chiede di inserire solo le sue iniziali - ha trentasei anni compiuti lo scorso giugno. A Trieste è arrivato nel dicembre del 2008. Da clandestino. «Volevo venire in Italia, e come fanno tanti miei connazionali ho pagato cinquemila euro per viaggiare dentro un camion. Dopo un lungo viaggio in traghetto, senza sapere la mia meta esatta, sono arrivato a Trieste. La fortuna e poi tanta buona gente mi hanno aiutato: ora sono qui è posso vivere da cittadino onesto. E libero». Mentre racconta la sua storia qualche cliente arriva nel suo ristorante.
«In Turchia ho sempre fatto il ristoratore. Avevamo una casa in Anatolia orientale nella città di Elazig. La mia famiglia possedeva anche una fattoria in campagna con una cinquantina di animali. Mi piaceva molto la mia vita. Assieme ai miei genitori e ai miei sette fratelli. E ovviamente con mia moglie e con i miei due primi bambini». Dal padre ferroviere - «un mestiere che in Turchia ti offre una buona paga» - impara la disciplina e la passione per il lavoro. La vita sembra filare senza troppi grattacapi. Al momento di prendere parte al servizio di leva militare, accetta, senza esitazioni. «Ho servito lo Stato per 18 mesi (ora il servizio dura solo un anno, ndr). Mi sono sempre comportato bene e non ci sono mai stati problemi». Le tensioni iniziano a sorgere poco dopo. È un cittadino turco, ma di etnia curda: una minoranza in Turchia, una maggioranza in Anatolia orientale. Giovane, caparbio, curdo. Cosa chiedere di meglio? «La polizia mi ha proposto di abbracciare le armi e andare in guerra. Contro i curdi, ovviamente. Io ho detto di no. Indipendentemente dal fatto che avrei dovuto combattere contro il mio popolo, io non voglio essere pagato per uccidere la gente». Le ritorsioni sono pressoché immediate. «La polizia ha iniziato a fermarmi, senza motivi, quando ero a bordo della mia auto o quando camminavo in città. Perdevo anche delle ore prima di essere lasciato libero». Dalle provocazioni, si passa alla minaccia vera e propria. «Un giorno uno dei capi della Ppizia mi ha dato l’ultima possibilità: o entravo in guerra o mi avrebbero costretto a firmare un documento nel quale sostenevo di essere un sostenitore del Pkk, cosa che avrebbe implicato il mio arresto». Di fronte ad un bivio lui, allora 28enne, decide di voler vivere la sua vita senza ricatti e senza l’obbligo di uccidere. «Non avevo più scelta: o andavo a farmi ammazzare in guerra oppure finivo in carcere». Consapevole che non c'è più futuro nella sua terra, decide di lasciare la Turchia e la moglie incinta del terzo bambino. Nel dicembre 2008, dopo un lungo viaggio a bordo di un camion guidato da un autista turco, profumatamente pagato per il disturbo del passaggio, approda a Trieste. «Sapevo che saremmo andati in Italia, ma non sapevo nemmeno dove fossi quando sono sceso. Così ha avuto inizio la mia seconda vita». Si ambienta e impara rapidamente l’italiano, trova l’aiuto di qualche connazionale, ma soprattutto trova tanta solidarietà, in primis quella di don Renato Caprioli, reggente della parrocchia dell’Immacolato Cuore di Maria.
Nel suo locale un piccolo televisore è sintonizzato sul canale televisivo Haberturk. Dalle immagini si capisce che il telegiornale della sera sta parlando della guerra in Siria. «Se mi manca la mia terra? Certo che mi manca, mi mancano soprattutto i miei genitori e i miei fratelli. Però per fortuna non sono più solo qui». Grazie al ricongiungimento familiare P.N. vive con la moglie e con i tre figli: una femmina di 13 anni e due maschi di 12 e sette. L'ultimogenito, che era nella pancia della moglie quando l’uomo è fuggito in Italia, ha potuto abbracciare il padre solamente all'età di tre anni. Oggi frequentano le rispettive scuole a Trieste, sono perfettamente integrati, i loro migliori amici sono italiani.(r.t.)
Riproduzione riservata © Il Piccolo