Storia di un arbitro: «Non è un gioco»

«Ormai sembra che se non ricevesse insulti un arbitro non sarebbe tale. Il dramma è che gli autori sono i tifosi più che i giocatori, i genitori di quei poveri ragazzi che desiderano solamente divertirsi». Il diciassettenne triestino Andrea Fonda, uno degli oltre 30 mila arbitri di calcio in Italia, racconta la sua esperienza come direttore di gara, ruolo che svolge da due anni tra i campi di Seconda Categoria.
Nonostante le molteplici ingiurie e proteste subite il giovane non è mai stato aggredito, come accaduto invece a molti dei suoi colleghi, circa 51 nella prima parte della stagione, presi a calci e pugni dai tifosi al termine delle partite. Caso meno grave, ma ormai onnipresente è quello del tifo come cumulo di insulti gratuiti contro l’arbitro.
«Il rispetto c’è solo quando una partita va bene – spiega Fonda –. Se i tifosi insultano me normalmente non mi danno fastidio. Sento ma non ascolto. Cerco di farci caso il meno possibile perché so che costituirebbe solamente uno svantaggio per me. Le orecchie però le tengo comunque sempre aperte perché devo stare attento ai cori razzisti».
Nel suo codice etico l’Associazione italiana arbitri (Aia) condanna il razzismo e tutte le tipologie di discriminazione, eppure in Italia episodi di tale genere continuano ad essere frequenti, sebbene Fonda non ne abbia mai assistito in prima persona. «Tutto ciò mi dà solo che fastidio. Il problema – sottolinea – è che purtroppo capitano anche nelle categorie giovanili, ed è triste notare come tutto parta dai genitori e da una loro sbagliata educazione ai figli».
Per non parlare dei casi di sessismo, fenomeno ricorrente per gli arbitri donne. «Penso che sminuire un sesso per l’arbitraggio di una partita sia stupido, infantile nonché sbagliato. Fa comprendere come, nonostante viviamo nel 2019, siamo arretratissimi sotto questo punto di vista».
Secondo Fonda per arbitrare non è necessario avere capacità innate, ma è fondamentale migliorare col tempo e con l’aiuto di arbitri più esperti le giuste qualità: la conoscenza approfondita delle regole, l’autorevolezza e la capacità di farsi rispettare in campo e di sviluppare un buon senso tattico in modo tale da interpretare le partite. Però «ciò che più è importante è essere in grado di rimanere umili nonostante la forza della divisa che si indossa».
Per diventare arbitro di calcio occorre iscriversi ad uno dei corsi tenuti annualmente dall’Aia, nelle sezioni presenti in ogni capoluogo di provincia; vi possono partecipare gratuitamente tutti coloro di ambo i sessi di età compresa tra i 15 e i 35 anni. Al termine del corso il candidato deve sostenere un esame che prevede test scritti ed orali sul regolamento del Giuoco del calcio ed un test di idoneità atletica, superato il quale si è ufficialmente un arbitro.
«Un consiglio che mi sento di dare ai giovani arbitri è quello di non prendere l’arbitraggio come un gioco, ma come un impegno che va mantenuto. Invito a non considerarlo come un lavoro – conclude Fonda – ma come una responsabilità e un mezzo per rendere il più bello e il più giusto possibile uno sport che senza una “giacchetta nera” rispecchierebbe più delle guerre che delle partite». –
Giorgia Sammartini
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