Storie e leggende “nere” dei sotterranei dei Gesuiti

GIOVANNI TOMASIN. Nel 1927 un giovane Diego de Henriquez si addentrò assieme a un amico, confortati soltanto dal lume di una candela, nelle gallerie oscure che si inoltrano nelle fondamenta della chiesa di Santa Maria Maggiore. Al Piccolo raccontò d’aver trovato un’anfora romana e altri reperti: «Tutte cose che rappresentano un valore solo agli occhi di un archeologo. La nostra fantasia restò appagata, ma non le nascondo che nel restante dei sotterranei inesplorati si debbano rintracciare cose assai curiose».
De Henriquez non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo a tentare quell’impresa, aggiungendo il suo tassello personale a una storia in cui è molto importante tracciare una linea, a separare la “leggenda nera” dalla storia. E se la prima riveste comunque un suo fascino, perché affonda le radici nei tumulti che animavano Trieste nell’Ottocento, la seconda è senza dubbio la più interessante.
Scendiamo nel sotterraneo assieme a Paolo Guglia e Armando Halupca della Società Adriatica di speleologia, il sodalizio che ha dato nuova vita alle gallerie, rendendole accessibili e organizzando visite guidate (vedi box). L’ingresso consiste in una galleria stretta e bassa, costellata di nicchie. Custodita in una teca, la mummia di un gatto che sta lì almeno da un centinaio d’anni. «Noi l’avremmo anche tolto, poveretto, ma ormai è diventato un simbolo del posto», spiega Guglia.
Una breve rampa di scale e si accede a uno spazio più ampio. Pareti di buona pietra squadrata, segnata ancora dai colpi degli scalpellini seicenteschi (per la storia della chiesa vedi box). Le volte del soffitto sono costruite con maestria in mattoni. I segni dei vecchi cardini mostrano che un tempo quest’area era divisa in spazi più piccoli da pesanti portoni.
L’ultimo vano, il più grande, è al centro di tutte le leggende urbane che circondano il sotterraneo: la cosiddetta “Camera rossa”. Si tratta di uno spazio rettangolare con due absidi laterali. In un angolo si trova un pozzo che un tempo riforniva d’acqua pura tutto il quartiere. Da una scaletta a chiocciola sul fondo si accede alla chiesa soprastante e, scalino dopo scalino, si sale nella torre che è stata soprannominata “torre del silenzio”.
Nell’Ottocento i primi visitatori del sotterraneo, suggestionati dal luogo scuro e angusto, in cui ancora si trovavano resti umani (un tempo era uso seppellire sotto le chiese) videro nella “Camera rossa” una sala adibita ai processi dell’inquisizione. Il pozzo sarebbe stato utilizzato per torturare le povere vittime, il sedile in pietra che segue la parete di una delle absidi diventava “un trono” per l’inquisitore e così via. Si tratta di una leggenda facile da smascherare per diversi motivi. Il periodo in cui la chiesa fu costruita è di molto successivo ai momenti di maggiore operatività del Sant’Uffizio nella nostra zona, inoltre quest’ultimo non aveva alcun interesse ad agire in segreto. Anzi, attribuiva un valore didattico ai propri procedimenti. Inoltre nel corso della sua storia l’ordine dei Gesuiti ebbe rapporti ambivalenti con l’inquisizione, trovandosi alle volte nel ruolo di accusatore, talaltra in quello di accusato.
Molto più interessante è l’origine della diceria. Uno dei primi fautori di questa storia, che andava montando di racconto in racconto, fu proprio il neonato quotidiano Il Piccolo, a partire dal 1887. Erano quelli gli anni in cui la Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814 dopo la soppressione del 1773) stava tornando a Trieste e ambiva a rientrare in possesso degli antichi beni.
Agli occhi del quotidiano irredentista e filoitaliano, i Gesuiti erano un riflesso dell’ordinamento medievale e cosmopolita della duplice monarchia. In fondo, il confessore stesso dell’imperatore apparteneva per tradizione alla Compagnia. Ecco quindi che sulle pagine del Piccolo comparve quella che oggi si chiamerebbe “macchina del fango”, volta ad ammantare i religiosi nelle peggiori nefandezze dei secoli bui. E quale miglior luogo dei sotterranei di Santa Maria Maggiore? La realtà della “Camera rossa”, però, è molto più affascinante.
Tutto, nella pianta della stanza, lascia intendere che si trattasse di una piccola cappella ipogea. Ai tempi era isolata da un lato da numerose porte, dall’altro era accessibile soltanto dalla scala a chiocciola posta dietro all’altare della chiesa di Santa Maria. Soltanto i gesuiti potevano accedervi.
È possibile che nella penombra profumata d’incenso i padri compissero qui i loro Esercizi spirituali. Questi sono il percorso di preghiera della durata di quattro settimane che il fondatore Ignacio de Loyola lasciò in eredità all’ordine come strumento per la purificazione dell’anima. Un sistema di autodisciplina spirituale, volto all’ascesi, che soltanto un santo guerriero come Loyola poteva ideare. Un mistero decisamente più autentico di qualsiasi diceria sull’inquisizione.
Quest’ultima, però, è dura a morire. Nel corso degli anni le voci hanno continuato a montare, tanto che nel passaparola popolare i sotterranei dei Gesuiti si collegherebbero attraverso tunnel segreti a questo o quel punto della città. Quando gli speleologi dell’Adriatica stavano ripulendo gli interni delle gallerie, una vecchina del quartiere li avvicinò dicendo «Ah, i sotterranei dei Gesuiti, con quel che i ga fato lì dentro...». Al che Paolo Guglia, incuriosito, s’avvicinò e le chiese: «Lei sa qualcosa, signora? Cos’han fatto?». La risposta fu iconica: «Cosa non so, ma qualcosa i ga fato sicuro».
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